Atto Primo

Atto Terzo

“Quanto tempo, Mat..!” gridò allegro, mentre mi accomodavo nuovamente su quella sedia di legno dalla forma serpeggiante (presente quelle sedie strane dell’Ikea… quelle che ti danno quattro pannelli a cinquanta centesimi e poi te ne fanno pagare 85 – di euro – per montarla senza perderci decenni della tua esistenza), avvertendo la familiare sensazione claustrofobica di essere paziente di uno psicologo avvolgermi come un mantello.

“Ma se eravamo qui anche ieri” non riuscivo a sorridere, guardavo continuamente quelle quattro mura come fossero cambiate di colore, mattonato, consistenza, forma… tutto sembrava trasformato. Mutato nell’arco di ventiquattro ore.

“Bé, però Humphrey Bogart insegna “perchè domani… è un altro giorno”, quindi oggi è un altro giorno. Non credi?” mi chiesi se anche quella domanda facesse parte della continua analisi che vedevo elaborare nei suoi occhi.

“Evitiamo…” mossi la mano ed evitai di guardarlo negli occhi, osservando un particolare troppo colorato per essere in quella stanza così affogata nella penombra. Devo dire che fino a poche ore prima pensavo fosse in realtà una sala torture dei vichinghi. Lui probabilmente il capo torture sadomaso.

“Quella pianta è viva sul serio o è finta?” indicai scettico il tronco del vegetale tirando fuori una mano da sotto il braccio. Faceva un freddo cane e cercavo di scaldarmi.

“Spiritoso. Non vedi che è viva? È una Dieffembachia” osservai le sue labbra muoversi scandendo le lettere, come a voler dire “nonlasaiquinditelodicoio”.

“Già… sai che io ho uno zooplancton a casa?” risposi atono, continuando ad osservare la pianta ingiallita nelle foglie più basse e sul punto di cadere.

“E un zoobenthos no? O magari un ftobenthos…” sospirai, arrendendomi all’idea che dovevo, per forza, rispondergli male.

“Senti, io ci provo a far vedere che so le cose per farti piacere…” voltai la testa verso di lui, vedendolo sorridere come vittorioso.

“…però devi capire che io una vita sociale vera la ho. E non studio cavallucci marini nel tempo libero, ma che so… parlo con il mio ragazzo?” come sempre, il sorriso compiaciuto non scomparve dal suo volto, facendosi anzi ancora più largo.

“Che soggetto interessante… accendo?” mosse leggero il dito sul pulsantino rosso del registratore. Per un attimo avevo dimenticato con chi stavo parlando. Guardai prima i suoi occhi verdi, impegnati in quella perenne espressione da papà intenerito.

“Prima voglio sapere perché ti faccio tanta tenerezza, stronzo” spostai le braccia sul tavolo, giocherellando distrattamente con una gomma presa dal portapenne accanto a me.

Spinse il pulsante, come a voler iniziare senza darmi ascolto. Da denuncia vi dico, da denuncia.

“Cosa ti fa pensare che mi fai tenerezza?” iniziò.

“I tuoi occhi” continuai a fissare quelle iridi verdi, a contrasto con il grigio e rosso spento di tutt’intorno. Oh, e l’accesissimo giallognolo spisciolato della parete dietro di lui.

“Molte ragazze dicono che ho degli occhi stupendi. È il tuo caso?” per un attimo mi venne da sorridere, pensando lo dicesse a qualcun altro. Poi mi figurai io, nel ruolo di spasimante dello psicologo – fighetto.

“Lo ringrazio spesso Dio per non avermi fatto ragazza, sai?”

L’atmosfera era pesante, molto pesante. Forse più della prima volta che entrai lì dentro. Il tempo si dilatava e si contorceva come un serpente, scivolava veloce via in silenzio, per poi fermarsi di botto e camminare lento, tendendo agguati.

“Come sei freddo, Mat… ieri eri tanto carino e gentile” scoppiai a ridere, quasi per umiliarlo che per altro.

“E si vede che non ho l’anima col termostato”

“Perché col termostato? Cosa ti ha fatto pensare a quello?” chiusi gli occhi, cercando di non dire cose troppo cattive così presto. Dopotutto erano solo le quattro di pomeriggio.

“Nien… no, davvero. Niente, fidati” avvertii un risolino sommesso, proprio mentre cercavo io di non ridere.

“Continuiamo… ieri dicevamo del tuo essere… omosessuale. Continuiamo su questa strada?”

“Mh.. no. Ho l’impressione di pensare troppo” risposi sovrappensiero, giocherellando con la gomma.

“Pensare troppo? E a che cosa?” alzai stanco gli occhi verso di lui, notando le braccia incrociate. Si era accomodato nella sua posizione di studio della preda.

“A tutto. In generale… penso troppo. Mi faccio troppe pippe mentali” mi folgorò la mente il pensiero di quante volte ho avuto voglia di dirlo alle persone senza riuscirci. Osservai il sole riflesso su una finestra del palazzo davanti, brillante di un dorato acceso.

“Sui ragazzi? Su te stesso? Sui tuoi problemi?”

“Tutte e tre le cose. Cioè…” mi appoggiai con la schiena alla sedia, cercando di fare mente locale.

“… penso troppo ai problemi che ho, me ne faccio altri assurdi, paranoie vere e proprie. Penso troppo a come mi comporto io, a come si comporta la gente con me e come devo reagire, a volte mi sembro così… falso” sospirai, continuando ad osservare le finestre dell’altro palazzo piene ognuna di impiegati nevrastenici impegnati in qualcosa di laborioso o oggetti diversi, insoliti.

“Falso? Non mi sembri falso, puoi essere un po’ chiuso, scontroso… a chi vorresti somigliare?” scattai con lo sguardo verso di lui, allarmato dalla domanda. L’indecisione sul rispondere o no era a livelli tremendi.

“A… una persona, un mio idolo. Chi mi ha convinto a mostrarmi per quello che sono, a chi sto somigliando, un po’ involontariamente” sorrisi imbarazzato, tanto che non me ne accorsi fin quando non me lo fece notare l’uomo di fronte a me, con un altro suo sorriso da uomo generoso e di buon cuore che aiuta il povero disgraziato.

“E non ti fa sentire bene questo? Se sorridi fastidio non ti da, direi”

“Ovvio. Ma ci penso troppo…”

“Ogni persona ha i suoi obiettivi. Obiettivi ed ambizioni che lo spingono a rendere ciò che può per arrivare alla meta. Ha i sogni, i desideri, che accumulano tensione, ansia, e spingono sempre più su. Tengono sospesi in quel limbo che si chiama “voglia di fare”, dove sei pronto a compiere anche un omicidio pur di avverare i tuoi desideri, ma appena i sogni si crinano… appena una delle speranze diventa un’utopia… l’ansia cresce, precipitando nel panico.”

“È l’ansia che spinge noi stessi ad elevarci. La forza della mente è sollecitata solo da questo. Ansia.” osservai perplesso il suo sguardo acceso, come stesse narrando le gesta di un grande eroe del passato.

“Credo di sapere cosa vuol dire… ma la mia ansia è sempre e comunque troppa”

“È la paura che potenzia le nostre debolezze” disse, secco. Rimasi in silenzio per diversi minuti, cercando i tradurre quelle parole in pensieri utili, mentre i soliti rumori della sveglia e del nastro scorrevano.

Il tempo… crea ricordi, complicati ragionamenti simili ad anelli criptici. Penso ancora a tutto ciò, nonostante le mille risposte trovi. È, credo… una cosa essenziale per vivere.

“Già… forse la mia debolezza è voler risultare simpatico a tutti… non mi piace stare TROPPO antipatico” sottolineai la parola, accorgendomi di quanto mi piace far vedere una punta di bastardo ovunque.

“La conosci la storia della famiglia con il mulo?” mi chiese.

Volsi un’occhiata interrogativa alle sue mani intrecciate sul tavolo. Un cambio di posizione, pensai, uao.

“Una volta, una famiglia – una donna, un uomo e un bambino – aveva un mulo, e aveva deciso di cambiare città, perché nella loro li criticavano tutti” fece una pausa, aspettando un mio commento. Rimasi in silenzio, vigile.

“Arrivati nella prima città, il bambino era in sella al mulo, mentre padre e madre tiravano, così la gente diceva ‘ah, guarda che ragazzino diabolico, si fa trascinare sul mulo dai suoi anziani genitori’, criticandolo” un’altra pausa, un sorriso, poi riprese.

“Così fecero scendere il bambino e salì la moglie, partendo per un altro villaggio. Alle porte di questo un altro gruppo di abitanti gridò ‘ah, che donna malfamata, farsi comodamente portare da suo figlio, così giovane e fragile, e da suo marito, che sgobba da mattina a sera per portare a casa il pane! Che egoista’, criticandoli. Scesero così la donna e fecero salire l’uomo” lo interruppi, curioso.

“Al villaggio dopo scommetto li criticarono perché c’era l’uomo sopra il mulo e la donna e il bambino a trainare, vero?”

“Esatto. Allora decisero di usare insieme il mulo, tutti e tre. Ma al villaggio dopo li criticarono ‘maltrattatori di animali, risparmiate quella povera bestia’ e cacciandoli. Così, insieme decisero di non usare più il mulo, tutti sarebbero andati a piedi, tutti allo stesso livello. Erano sicuri che nessuno li avrebbe più criticati” sorrise, ma continuò.

“Solo che, arrivati all’ennesimo villaggio, appena entrarono le porte della città, scoppiarono tante risate e tutti li presero in giro dicendo “guarda che idioti! Hanno un mulo e neanche lo usano! Lo vendessero a questo punto” criticandoli. Morale della favola?” ero quasi affascinato da quella storia. Idiota ma veramente significativa.

“Tutti ti criticheranno, qualunque cosa tu faccia. Perciò… fai ciò che vuoi, quando vuoi e come puoi” concluse, ridistendendosi sulla sedia. Sorrisi, quasi imbarazzato.

“Già…” il silenzio ci circondò, come abbassando il sipario. Fine spettacolino, triplo fischio. Mi alzai, sentendo la sedia emettere un cigolio appena udibile.

“Penso troppo, l’ho sempre detto. Vado a scaldarmi l’anima” sorrisi sincero, come perso nei miei pensieri, ed uscii dalla porta per andarmi a prendere un thè. Le cinque e mezza.

Tutto ciò sembrava un sogno, non incubo, ma sempre e comunque una sfida con me stesso.

“Un giorno ti capirò, Matthew” sussurrai, lasciando cadere i venti centesimi nella fessura della macchinetta.