Tekkon Kinkreet

Il telegrafo di luci abbacinanti e dilatate di una soggettiva ‘a volo d’uccello’: un corvo (come nel miglior film di Alex Proyas), con movimenti di camera roteanti come un ottovolante, osserva con distacco il crogiolo anni ’80 di Takaramachi.

Una compressa scatola di giocattoli come quelle dei bambini ricchi: vomitante palazzi, strade, vite, morti e umanità. Oggetti ovunque, dettagli a centinaia in una roboante giostra di balocchi, in cui anche le automobili si muovono come fossero caricate a molla. Se i colori non facessero da calmiere a concretizzare tutto in una parvenza di realtà, ci sarebbe da farsi venire le vertigini.

Shintoismo, Buddismo, Taoismo e chi più ne ha più ne metta. Ogni rappresentazione immaginabile dentro Takaramachi (o Città Tesoro) è talmente in chiave pop da creare un enorme mercato simbolista delle pulci.
“Questo è il territorio dei Gatti”.

Qui ha inizio “Tekkon Kinkreet”, ulteriore monumento di quel nome che oramai è certezza di innovazione e originalità: lo Studio 4°C. Dall’onirico e caustico manga di Taiyo Matsumoto, edito nel 1994 da Shogakukan (e attualmente in corso di pubblicazione per KAPPA Edizioni: 3 volumi totali, 15×21, b/n, brossurati, € 14,00 cad. indicativi).

La gestazione di quest’opera visivamente colossale è durata ben 7 anni, durante i quali il regista Michael Arias (collaboratore già in Mononoke Hime, El Dorado, Animatrix) è riuscito ad adattare la propria presenza di Gaijin americano ai moduli di produzione giapponese, apportando un valore aggiunto a mio parere assimilabile a quello che, nel tempo che fu, diede Tim Burton entrando a Hollywood. Scontratosi in primis con una punta di campanilistica diffidenza, non scenderà a compromessi sulla scelta sia dello sceneggiatore (Anthony Weintraub) che della colonna sonora (realizzata dai Plaid), entrambi già compresi nel bagaglio che Arias si porta dagli USA. In seguito, la collaborazione tra regista e produzione sarà così prolifica da regalare al pubblico una delle opere grafiche di maggior impatto e respiro degli ultimi tempi.

Tanto che gli occhi non sanno mai quanti dettagli sta immagazzinando il cervello, ricompensando lo spettatore con una sensazione di stordimento saturo: perché, anche a rivederla più volte, Città Tesoro cambia di minuto in minuto.

Qui vivono la loro storia ‘I Gatti’: Bianco (Shiro), 11 anni e non sapere nemmeno vestirsi senza l’immancabile aiuto di Nero (Kuro), 14 anni di pazienza e amore per il fratello. Bianco e Nero sono pura Natura. Bianco nella sua faccia istintuale, nell’irrazionale purezza del bambino o dell’animale, nella semplicità ingenua e disarmante. Nero ne è la furia, la rabbia protettrice e la saggezza di una madre, la violenza crudele, estrema, che può nascere da un bambino armato di spranga. Shiro è Bianco, Kuro è Nero, inscindibili senza una rottura totale.

Due niños de rua dagli occhi sottili e dalle agilità feline, ovviamente orfani, ovviamente ai margini della società, incredibilmente conosciuti, temuti e rispettati sia dalla Malavita locale che dalla Legge.

Considerando gli archetipi di Poliziotti e Yakuza del film, per la prima volta mi sono domandato se, tutto sommato, questi personaggi, risultanti piuttosto stereotipati, non siano effettivamente così.

Anni di film, libri, anime e fumetti non saranno andati ad assemblare un’armatura intorno ad alcune categorie?

Un’armatura che a ben vedere nasconde un nucleo uguale a se stesso?

Il Topo (Nezu) è ‘uomo d’onore’ vecchia maniera. Grigio, disperato e autodistruttivo, mantiene la facciata noir di chi non può cedere alle emozioni se non vuole essere ucciso; progenie anch’egli, come i Gatti, del caos urbano.

Il suo ritorno a Takaramachi è l’incipit che attiva una lotta per la territorialità sopita da un po’. Fa però il proprio ingresso un nuovo elemento di squilibrio, il signor Serpente (Hebi), e i giochi di potere si manifestano con forze differenti da prima, pericolosamente evolute.

Dalle minacce, i pestaggi e le uccisioni della vecchia Yakuza, il male diviene sottile, silenzioso, impersonale e macroscopico, economico e industriale. Le potenze in ballo sbilanciano e sul piatto del denaro le armi sono così inaffrontabili da apparire inumane, addirittura aliene (come i tre killer assoldati da Serpente per eliminare i Gatti).

Già, perché a differenza della polizia, che come nel più classico dei cliché ‘resta a guardare’, Nero non ci sta a cedere Città Tesoro. Quando il ‘Luna Park privato’ dei due fratelli rischia di diventare un Luna Park per l’utile di pochi adulti, scende in campo, ignorando i delicati messaggi del compagno che desidera abbandonare il luogo che lo sta uccidendo (un porcellino salvadanaio servirà per volare via? Una casa in riva al mare è una salvezza?). Città Tesoro è sua, un tesoro da difendere combattendo.

E se due bambini pestano e vengono pestati da adulti, con foga tale da cancellare l’edulcorazione abitualmente usata trattando di minori, l’effetto è destabilizzante. Mafiosi VS Bambini a pugni e sprangate ottiene un certo ascendente.

E’ però con una coltellata che trafiggono la serenità di Bianco e strappano la valvola a Nero, che, come una pentola a pressione impazzita, urla rabbia ed esplode in violenza folle. Bianco è il cuore gentile di Città Tesoro, ed è stato ferito.

Nero e Bianco sono come il TAO: appoggiati in equilibrio l’uno sull’altro. Dividere lo Yin e lo Yang non può causare che la caduta di entrambi. E un tonfo così fa molto rumore.

Da questo avvenimento prende il via il climax finale che (più che compreso) brama di essere sentito, osservato, assorbito attraverso le retine affogate nel tripudio di immagini che detonano.

Dinamico, allucinato e allucinante, con ampi spazi claustrofobici, a tutto tondo e multidirezionale; disorientante. Una prospettiva nell’utilizzo della camera talmente dilatata e stirata da trovarsi al limite della rottura, sull’orlo sottile dello sgraziato. Mai oltre. Una mente malata e scoperchiata al mondo fino alla catarsi finale, fino all’incontro con il ‘Minotauro’.

Se amate le trame ricche di intrighi e colpi di scena, certamente non troverete ciò che cercate. La storia di per sé è quasi fiabesca, considerata la linearità dell’impianto narrativo. Ma, a volte, per fare arte non è necessario raccontare qualcosa di originale… ma farlo in modo originale. Il character design è quanto di più lontano dagli stilemi classici a cui l’animazione nipponica ci ha abituati, aderente al tratto originale del manga: mi sbilancerei a ricercare una similitudine con l’animazione russa di metà novecento. Piuttosto stridenti le traduzioni in italiano dei nomi (nonostante anche in giapponese avessero un significato proprio e caratteristico del personaggio), che tendono ad abbassare il tono dell’opera a un livello più infantile di quel che realmente è (chiamare un cattivo signor Serpente non fa lo stesso effetto di Hebi-sama). Anche il doppiaggio, purtroppo, non sempre è all’altezza delle aspettative: funzionale e mai eccelso.

Tekkon Kinkreet richiede una visione consapevole, cosciente del fatto che non si sta guardando un anime standard, ma una fusione di stili, tecniche, immagini concettuali, astratte e concrete, musiche e suoni che è quanto di più audace e ben riuscito io abbia visto negli ultimi anni.

Recensione di Massimiliano Fontana