I mostri celati

I. apparent slumber

Pioveva ormai da giorni nella vecchia periferia di Galeney che non sembrava aver alcun’intenzione di smettere; tuttavia questo era anche normale essendo ormai arrivata la stagione delle piogge. I cittadini erano abituati ad uscire brandendo l’ombrello, anche se si trattava di un giorno di sole: non ci metteva molto tempo a sparire per far spazio alle nubi grigie. L’odore della pioggia era talmente forte nell’aria e nelle strade che perfino gli stranieri non erano così stolti ad uscire senza un parapioggia. Ed in una di quelle sere tarde, proprio degli stranieri per la prima volta guidavano la loro piccola automobile nera fra le strade di ciottoli bagnate di Galeney, fermandosi poco prima delle strisce destinate ai pedoni.

La testa tonda e pelata dell’autista si sporse dal finestrino osservando prima il cielo nuvoloso e dopo a lui davanti, dove dei signori armati dell’ombrello ancora chiuso e dai lunghi impermeabili attraversavano la strada, annusando l’aria.

Il signore, mostrando il suo disapprovo, allungò la bocca, sbuffando – mantenendo ben saldo lo stecchino fra i denti. «Pioggia! Questo postaccio puzza troppo di pioggia!».

Rintanò la testa e al segno del semaforo riprese moto.

«Siete sicuri che sia questo il posto?», domandò la voce rauca di questo.

Quando la macchina nera venne parcheggiata non tanto distante, l’uomo protese ancora la testa, scrutando una casa dai vetri colorati nella strada a fianco, con interesse, notando anche la pioggia leggera cominciare a cadere dal cielo sulla sua testa. Due uomini e una donna scesero dall’auto, coperti dai loro impermeabili neri, diretti alla casa. Senza ombrelli si accostarono alla porta ed uno di loro suonò al campanello.

Fu un uomo magrolino ad aprire la porta, con gli occhiali da vista e un golfino dai colori spenti sopra la camicia bianca.

«Desiderate?», emise a voce bassa, spiazzato dai tre e dal loro abbigliamento inusuale: il nero nonostante la città buia non era proprio il colore di Galeney. «Noi non aspettiamo ospiti…». Aveva la mano attaccata alla maniglia della porta pronto a richiuderla, nessuno si lasciò sfuggire il particolare. Sembrava quasi impaurito.

L’uomo che suonò al campanello si mostrava come il portavoce e fu lui a parlare per il gruppo. «Siamo qui per sua figlia Fabrienne. Possiamo vederla?». La sua voce era fredda e calcolata, malgrado il suo tono più che umano.

L’uomo del golfino controllò i visi dei tre uno per uno, cercando come di scoprire cosa si celava sotto i loro grandi occhiali scuri. Sembrava titubante, tuttavia li fece accomodare spalancando la porta e facendo loro la mano. Sembrava un uomo di quelli che avevano perso la speranza, tutti loro se n’erano accorti con un solo sguardo.

Entrarono spediti percorrendo il corridoio e il padrone di casa li raggiunse goffo poco dopo aver chiuso la porta. Talmente erano veloci che non sembravano neppure metter piede nel lungo tappeto.

«Ma chi siete…?», domandò forse un po’ tardi, mettendosi a loro davanti. «Altri dottori? Siete i dottori che stavamo aspettando?».

Una donna arrivò svelta e dietro di lei un’adolescente, incuriosite dai rumori provenienti dall’ingresso.

«Caro, cosa succede?», chiese la signora, dall’aspetto denutrito e stanco. «Chi sono queste persone?».

«Mi hanno chiesto di Fabrienne…», rispose solamente, lento.

Dopo aver cercato con lo sguardo il loro obiettivo senza risultati, si fermarono quasi ai piedi della donna e il portavoce si sfilò gli occhiali scuri dal volto. I suoi erano dei meravigliosi occhi azzurri, limpidi e puri.

Non le diede la mano e alzò la destra solo per sistemarsi il guanto nero di pelle.

«Signora, scusi l’intrusione, ma ci è stata fatta la segnalazione su Fabrienne e siamo corsi il prima possibile.», disse lento, dalla voce calcolata come poco prima.

«Ma siete dei dottori?», domandò la donna reggendosi convulsamente le mani, fregandosele: era troppo nervosa.

«Una specie, forse possiamo aiutare vostra figlia. Ci faccia dare un’occhiata.».

I tre seguirono la donna e la sua famiglia per una camera dalla porta chiusa, spalancandola. Il buio subito li involse ed entrarono, lasciando la porta aperta.

«Solitamente non la mettiamo ad esposizioni di forti luci e colori… Ho paura possano farle del male, così accendo solo delle candele.», fece la donna brandendo una delle candele da sopra di un comò, e con l’accendino l’accese, porgendola al portavoce. Tuttavia quest’ultimo non la prese e con un’occhiata fu l’altro uomo del gruppo a reggerla.

Il portavoce accompagnato dai due compagni si avvicinò al lettino, dove una bambina giaceva immobile.

La famiglia accese altre candele e la stanza cominciò un poco più a colorarsi di quelle luci spente dei giocattoli tristi.

«Fabrienne… Fabrienne, sono la mamma!», cominciò a parlarle a bassa voce, accarezzandole la fronte, levandole la frangetta dagli occhi.

I tre continuavano a fissare la bambina e solo il portavoce, una volta sola, si sporse con lo sguardo per osservare la stanzetta.

All’improvviso la bambina spalancò veloce gli occhi, completamente bianchi. Si potevano notare i capillari forti ed evidenti. Questi propendevano verso la luce; non sembrava riuscisse a percepire altro.

L’adolescente restò affacciata alla porta, schifata e preoccupata allo stesso tempo, mentre i tre fecero allontanare i genitori dal corpo.

Il portavoce le allargò gli occhi e dopo le aprì la bocca. La bambina non portava resistenza: il suo corpo era come svenuto.

«Da quanto tempo Fabrienne è in questo stato?», domandò con il solito tono.

«Da mesi ormai. Nessun dottore è riuscito a capire cos’ha e nessun’ospedale la vuole accogliere… Siamo disperati, pensano sia maledetta…», soffiò la signora sul punto di piangere. Il marito la strinse a sé, non potendo far altro. «Un medico ci aveva accennato che poteva trattarsi di coma ma…», si bloccò, per poi riprendere a singhiozzi «Questo lo disse prima di vederla aprire gli occhi… E subito se ne andò, impaurito. Questa storia va avanti da troppo tempo…».

La disperazione stava consumando quella donna; l’amore per la figlia sembrava essere rimasta l’unica cosa a tenerla ancora in piedi e persistere.

«Potete aiutare nostra figlia…?».

Nessuno rispose a quella domanda e i due collaborati si misero – a cenno del portavoce – a girare intorno al lettino della bambina, scrutandolo in ogni minimo angolo.

«Allora?», li richiamò il marito. «Potete far qualcosa per la nostra bambina o no? Rispondete?».

Continuavano ad ignorare le domande e il portavoce richiuse gli occhi della bimba.

«Appena risaliti in macchina avviseremo Jones di preparare un lettino, la sistemeremo lì.», esclamò ad un certo punto, sistemandosi i guanti neri.

I genitori cominciarono a scambiarsi degli sguardi preoccupati per poi a fissarli, alla luce di quelle parole.

L’uomo sollevò con estrema delicatezza il corpo di Fabrienne dal letto, reggendola sulle sue braccia, e voltandosi si riferì sempre ai collaboratori «Fate uscire i genitori dalla stanza e ripulite a fondo. Deve aver richiamato un grado D. O al massimo due.».

Mentre i collaboratori si risistemavano i loro guanti neri, il portavoce si dirigeva fuori dalla camera con la bambina sulle braccia. I genitori si misero a lui davanti ma questo non si fermò, continuando a camminare verso l’andito.

«Dove avete intenzione di portare nostra figlia?», diceva il signore, cercando di bloccargli il passaggio come poteva.

«Non potete portarla con voi! Cosa state facendo?», s’intromise anche la donna.

I collaboratori chiusero la porta della stanza a chiave alle loro spalle, vista la famiglia fuori, e non si udì più alcun rumore dell’interno.

«Porteremo Fabrienne con noi e quando starà bene tornerà a casa.», esclamò il portavoce, percorrendo l’andito verso l’uscita.

«Ma allora potete curarla?», fece la signora.

Il portavoce riusciva ad intravedere negli occhi della donna quella speranza che tentava di prevalere nella rassegnazione, come avrebbe fatto a mentirle? Non aveva la minima idea se potevano curarla, se poi alla fine quello sarebbe stato il termine più adatto.

«Sua figlia tornerà a casa.», si limitò così, con un poco di voce.

Trovò la porta di casa aperta al suo passaggio e l’adolescente uscì dietro di questa non appena l’uomo ebbe varcato la soglia.

«Aiuti mia sorella!», soffiò con lo sguardo chino, a malapena guardandolo.

Il portavoce annuì appena e cercando di fare più in fretta che poteva per via della pioggia, sdraiò la bambina ai sedili posteriori dell’automobile – dopo che aprì la portiera il signore pelato – e in seguito si recò al sedile accanto all’autista.

Dopo breve tempo i collaboratori uscirono frettolosi dalla porta di casa, infilandosi in macchina, facendosi spazio con la piccola Fabrienne sulle gambe.

La macchina nera partì, pronta a lasciare Galeney e la sua pioggia.

I collaboratori si sfilarono gli occhiali scuri e aprirono un po’ i loro impermeabili per prendere aria.

L’unica femmina del gruppo era molto affascinante, giovane, dai capelli poco più in basso delle spalle, neri così scuri da avere i riflessi blu, gli occhi castani più simili al dorato.

Accarezzò la fronte della piccola sopra le sue ginocchia, sorridendole, e si ricordò così di tirare fuori qualcosa da una tasca dell’impermeabile, porgendole al compagno al fianco. «La madre mi ha dato queste per infilargliele, che dalla fretta non ha fatto in tempo a mettergliele!».

Il ragazzo prese le calze, svolgendole e infilandogliele nei piedini scalzi e freddi, senza fare nessuna storia. Sapeva di non dover discutere di queste cose con lei.

Lui sembrava essere il più giovane del gruppo: di costituzione piuttosto piccola, molto carino e quasi gli si potevano notare le piccole lentiggini lasciate dalla pubertà. Aveva i capelli castani sempre in mezzo agli occhi, e questi erano grandi, al color delle mandorle.

«Ah!», si voltò a loro quello che fino a poco prima era il portavoce del gruppo, aprendosi anche lui l’impermeabile. «Ditemi, avete riscontrato il grado D?».

«Grado D?», sbottò l’autista, sorpreso. «C’era un grado D in quella casa?».

«Erano due…», confermò la ragazza. «Uno si stava formando!».

L’uomo si voltò, sistemandosi meglio nel sedile, reggendosi la fronte.

«State scherzando, vero?», continuava l’autista. «La bambina è riuscita a richiamare quasi due gradi D? Non ci posso credere…». Contrariato continuava a scuotere la testa, attento a mantenere ben salda la macchina, per via delle strade bagnate.

«Sally…», chiamò la ragazza il portavoce, mollandosi la fronte e brandendo un telefono cellulare vecchio modello. «Tieni, tesoro, chiama Jones e dì del lettino, così appena arriviamo la sistemiamo.».

Lei annuì e afferrò il cellulare.

«Aspetta, ti accendo la luce!», disse il ragazzo al fianco per aiutarla a vedere i numeri da premere, per via del troppo buio, ma i due contemporaneamente lo fermarono.

«Non farlo! Idiota! La bambina spalanca gli occhi a contatto con la luce…», fece brusco l’uomo.

Seccato il giovane abbassò la mano, non aprendo più bocca.

La macchina nera s’inoltrò per l’autostrada deserta ed ormai era notte fonda; avrebbe continuato a camminare per tutta la notte fino ad arrivare a destinazione.