Veleno

Veleno

VELENO -STORIA DI UN OMICIDIO-

Guardava quel quadro da più di un ora, eppure non riusciva a capire il perché la gente gli desse tanto valore, e su di esso incombesse un prezzo tanto alto. Altro non era che una tela sulla quale erano stati gettati a caso due o tre colori, che poi mischiati tra loro riuscivano a creare diverse tonalità e sfumature.

Stava lì appeso alla parete bianca del suo salotto, come uno dei tanti trofei, uno tra i tanti quadri.

Stava lì immobile, come è naturale che stia una tela incorniciata, eppure dal suo divano di pelle dove era seduto aveva notato un qualche cambiamento.

Si avvicinò posando sul mobile di legno chiaro il suo bicchiere di cognac ormai vuoto.

La tela non cambiava, ne i colori l suo interno cangiavano. Rise di se stesso per aver pensato anche per un solo momento che qualcosa all’interno dell’immagine si fosse mosso, se quella naturalmente poteva esser chiamata immagine, lui preferiva affibbiarle il nomignolo di scarabocchio colorato.

Andò a riempirsi il bicchiere con altro cognac, scegliendo naturalmente il più invecchiato, il più costoso, così com’era per tutte le cose nella sua vita, una selezione accurata e precisa, l’importante era il prezzo esposto al pubblico, e non il vero valore affibbiatogli personalmente.

Nonostante la sua lussuosa vita, nella quale all’apparenza non mancava niente, denaro, donne, era un uomo solo, a capo di un azienda importante.

Un uomo solo e corrotto, avido.

Non aveva figli, e a fargli compagnia in quelle serate malinconiche solamente un buon bicchiere di cognac o di scotch invecchiati a dovere. Proprio quel mattino aveva concluso il più grosso affare della sua vita, anche se gli era costato tradire i suoi soci più stretti. Non osava immaginare cosa sarebbe successo quando avrebbero scoperto che aveva lasciato affondare l’azienda, se ne fossero venuti a conoscenza sicuramente avrebbero tentato di assassinarlo,ma non importava, mancavano ancora pochi giorni alla sua partenza, la grande fuga da tutti i problemi.

Si mise nuovamente seduto sul suo divano, e riprese ad osservare la tela. Dall’angolo destro si allargava una macchia gialla, che andava nel centro a sovrapporsi con un’altra di colore rosso, formando così un arancione quasi incandescente, che però dall’artista era stato rovinato da un verde muschio, che si mischiava a vari toni di blu e viola, ma in quella visione qualcosa era mutato, un colore, se così lo si può definire, si era aggiunto agli altri, una piccola macchia nera.

Finì di bere, poi si alzò e sia avvicinò per l’ennesima volta al dipinto, scrutò la piccola macchia pece, che prima non c’era. Ne era sicuro, il quadro era cambiato, si domandò se in qualche modo potesse essersi sporcato, ma niente poteva dare una giustificazione a quel piccolo difetto appena comparso.

Si sedette di nuovo questa volta pensieroso. Gettò uno sguardo veloce al bicchiere, lo riempì ancora e riprese a sorseggiare avidamente quel liquido color ambra.

L’immagine mutava. Si alzò questa volta di scatto, salì le scale e si diresse velocemente nel suo studio, cercò tra le varie carte nei cassetti, poi soddisfatto la trovò, l’immagine riprodotta in piccola scala, dell’opera che aveva acquistato, aprì un altro cassetto in basso, e prese con se anche la sottile fotocamera digitale, poi si diresse nuovamente al piano inferiore, poggiò sul pavimento la riproduzione della tela, la osservò attentamente sporgendosi su di essa, ne era sicuro, al suo interno non erano presenti macchie nere. Poi focalizzò il suo sguardo sull’originale, e con sua grandissima sorpresa notò che lo schizzo pece si era allargato, andando a somigliare sempre più a un buco nero in un vortice di colori.

Prese tra le mani che ormai gli tremavano la macchina fotografica, la accese, poi iniziò a scattare.

Venti scatti, due minuti, il tempo trascorso tra l’uno e l’altro. Ogni volta che premeva quel piccolo bottone, la sua mano tremava sempre più, in proporzione a quanto andava allargandosi la macchia nera. Fino a quando l’intera tela non divenne color carbone.

Non aveva bevuto molto, aveva messo in ipotesi che a creargli quell’allucinazione fosse stato l’alcool, ma non ne aveva ingerito così tanto da mutare la realtà.

Iniziò a sudare, e a ripensare agli eventi, quello strano fenomeno non trovava una spiegazione, riguardò le foto appena scattate, e ognuna di esse era una valida testimonianza dell’avanzare del buco nero.

Alzò la cornetta del telefono nell’ingresso, tenendo sempre d’occhio il dipinto. Provò a comporre il numero dell’uomo che aveva presieduto l’asta alla quale aveva comprato l’astratto e moderno capolavoro, incurante dell’ora, le due di notte inoltrate. Non rispondeva nessuno, il telefono sembrava morto.

Si diresse di nuovo in salotto, gli girava la testa, e il sudore si era fatto freddo, a differenza del suo corpo che pareva esser sempre più caldo, prese il cellulare e provò a contattare il primo numero in rubrica, la sua vista si faceva sempre più sfocata, ma niente, neppure il cellulare reagiva, in un impeto di rabbia lo scagliò contro il dipinto, ciò che avvenne lo lasciò senza fiato, il telefono era sparito all’interno del quadro, assorbito dal nero sempre più buio e profondo.

La curiosità non mancava, si avvicinò alla tela color carbone, affacciandosi, quasi fosse stata la finestra su un altro mondo, ma al suo interno non riuscì a scorgere niente. Si asciugò il sudore dalla fronte, e si sbottonò la camicia che sembrava opprimergli il petto, a quel punto colto da uno strano entusiasmo immerse tutto il braccio all’interno del quadro, la tela era grande, così vi immerse anche l’altro, e infine anche la testa.

Tutto era buio, più buio di un cielo senza stelle. All’interno del quadro il niente. Era come vagare nell’oscurità più totale, provò a lanciare un grido, ma non uscì alcun suono dalla sua bocca, poi la luce, una serie di immagini che scorrevano veloci davanti a lui, un’ insistente oppressione alla gola, e il sudore che non cessava di bagnargli la fronte il collo, e il viso arrossati. Ad un tratto le immagini si fecero più lente. E davanti ai suoi occhi, se stesso da bambino.

Un padre violento e alcolizzato, una madre succube, e lui che piangeva in un angolo di una cucina grigia.

Continuava a piangere e a gridare ma il padre non si fermava, beveva dalla sua bottiglia sempre piena, incolpando lui e sua madre di averlo portato alla povertà più assoluta…

Si asciugò al fronte ancora una volta, non riusciva a spiegare quel fenomeno, ormai altro non poteva fare che osservare la sua vita scorrergli davanti. Si tocco gli occhi, accorgendosi che insieme al sudore c’erano le sue lacrime, salate e amare, le lacrime che non aveva mai versato in tutti quegli anni.

Il continuo cercare di colmare il vuoto con ricchezze e denaro, così come suo padre, alla continua ricerca di qualcosa, di un lusso che non avrebbe portato a niente, incurante che il vero tesoro era sempre stato ad un metro da lui, la sua famiglia.

Poi di nuovo buio, il buio più totale, l’aria iniziò a scarseggiare, e il suo respiro si faceva corto e avido di ossigeno, la gola sembrava chiudersi per non lasciar passare niente.

Avrebbe voluto gridare aiuto, ma dalle sue labbra fuoriuscivano solo incomprensibili sibili.

Poi la luce, di nuovo la sua stanza, il freddo pavimento di marmo grigio, il quadro non più appeso alla parete, ora la vedeva, quella scritta, in neretto, vivida contro lo sfondo dorato della targa, il nome del quadro:”Veleno“. Poi il niente.

In quella stanza dalle pareti bianche a regnare è il silenzio, sullo sfondo una macchina fotografica contenente venti uguali e immutate foto di un dipinto,I fili di un telefono tagliati, interrompono ogni contatto con il mondo esterno, un cellulare rotto, all’apparenza gettato con forza contro una parete, una tela sfondata al centro, un bicchiere vuoto e una bottiglia di cognac; al centro il corpo inerme di un uomo morto avvelenato.