Osannato sia dalla critica che dal pubblico, si può affermare senza la benché minima esitazione che L’uomo senza talento, di Yoshiharu Tsuge, sia un capolavoro. Un manga che nel tempo ha acquisito sempre più fama a livello internazionale, arrivando a superare la ritrosia del proprio autore, fino ad esser considerato uno dei testi imprescindibili per comprendere a pieno le potenzialità espressive del fumetto.
Pubblicato a puntate fra l’85 e l’86, L’uomo senza talento è una delle ultime opere di Tsuge prima dell’addio (per motivi psicologici e familiari) alla carriera da mangaka e certamente l’opera che meglio rappresenta l’evoluzione nel suo stile, esempio forse più compiuto del watakushi manga, il “manga dell’io”, in cui parole e disegno sono usate per sondare le profondità dell’animo del proprio io narrante. Questo fumetto è stato pubblicato in Italia grazie alla casa editrice bolognese Canicola e al lodevole lavoro di Vincenzo Filosa, che ne ha curato traduzione ed edizione.
Il manga dell’introspezione
L’uomo senza talento
è un manga dalla trama di una semplicità sconcertante. Un uomo, Sukegawa, che intuiamo sia stato mangaka un tempo lodato sia dal pubblico che dalla critica, vive in condizioni di estrema povertà con un figlio piccolo che gli fa praticamente da angelo custode e una moglie che lo considera un verme, senza mezzi termini. Ossessionato dal desiderio di ricchezza, quest’uomo (che sembra il doppelganger di Tsuge) decide di voltare le spalle ad una possibile carriera da fumettista per imbarcarsi in un’assurda impresa: vendere pietre.
Sukegawa è abbagliato dai fasti di un’antica tradizione, ormai fuori moda, ossia quella del collezionismo di pietre dalle forme curiose e rare, ma il fiume lungo il quale egli vive è caratterizzato da un fondo di rocce comuni, pezzi ordinari, normali, tutte uguali. Oggetti privi di interesse ma valutati come opere d’arte dall’uomo che, con assurda e granitica volontà persevera nella sua bislacca scelta, fino alla rovina.
L’uomo senza talento
Di primo impatto sembrerebbe una storia narrativamente semplice e minimale, in realtà in questo testo, profondamente intriso di maledettismo, si nasconde una poetica paradossale: il centro dell’opera di Tsuge è tutto ciò che il resto della società – programmata secondo regole morali, estetiche e politiche ben precise – ritiene obsoleto, privo di interesse. Prodotto inutile perché non in grado di produrre “utile” mentre invece per il protagonista diviene speranza di una assurda riuscita.
Per tutta la storia quest’uomo non fa altro che inseguire pateticamente il successo e il vile denaro senza che questo lo interessi veramente e, a ben pensarci, ciò da cui egli rimane realmente ammaliato sono le storie al limite del verosimile di altri emarginati come lui. I personaggi, che Tsuge descrive attraverso la narrazione del protagonista, sono degli sconfitti, degli esclusi dalla società che però, avendo sperimentato sulla propria pelle quanto può essere dura l’esistenza, hanno “vissuto”. Dalla storia di un singolo si arriva dunque all’epopea di un microcosmo di personaggi che hanno fatto della “conquista dell’inutile” il proprio vero talento.
Lo stile nei disegni
Anche il disegno con la quale viene rappresentata la storia sembra una contraddizione. Il segno di Tsuge è tanto minimale quanto estremamente dettagliato sopratutto laddove a dettare la narrazione sono i silenzi, che scandiscono il ritmo che lega le parole alla precisione di un tratto che dà il meglio di sé nella rappresentazione della natura, come nella più piena tradizione giapponese. Ed è proprio il paesaggio così vivido ad essere in continuo dialogo con l’introspezione dei personaggi, nello stesso tempo specchio e testimone delle loro vicende.
L’uomo senza talento è un manga doloroso, che nella sua semplicità è capace d’immergere il lettore nell’affascinante mistero che è la quotidianità.