Autoconclusivo

Autoconclusivo

Era cominciato tutto per noia.

Indolente, silenziosa e insopportabile noia. Invisibile, eppure perennemente presente: restava in agguato dietro l’angolo più buio del castello, per poi sbucare con un ghigno apatico sul volto trasparente una volta terminata la nostra missione.

E ogni volta era sempre peggio.

Ci corrodeva lentamente, superava la pelle, si infiltrava fin dentro le ossa, adagiandosi sui nervi scoperti, ghiacciando tutto. Insopportabile.

Ricordo un tramonto che non ci stancava mai e ghiaccioli dal gusto impossibile sciogliersi tra lingua e labbra. Ricordo come il frusciare del vento accarezzava la pelle del cappotto e portava via monologhi senza senso su non-cuori e sentimenti.

Ma più di tutto, ricordo l’espressione angelica del suo viso mentre mi proponeva qualcosa di assolutamente indecente per spezzare la coltre di nebbia che con monotonia aleggiava sulle nostre giornate.

In quelle ore che passavamo insieme, chiusi in una stanza, nel vicolo più buio di World That Never Was, dovunque ne sentissimo il bisogno, potevo accantonare l’enorme vuoto che avevo all’altezza del petto. Perchè se avessi avuto un cuore sapevo che, finiti i giochi, si sarebbe spezzato. E in quei momenti era meglio così.

Quando sul collo sentivo la sua carezza bagnata di lingua, denti e labbra; quando sentivo la pelle del mio cappotto gemere a contatto con la sua; quando il calore mi accendeva le guance, e il sangue e l’adrenalina e l’eccitazione salivano alle stelle; quando nemmeno il suono dei miei sospiri riusciva a raggiungere le mie orecchie almeno quanto i suoi; quando la mia schiena si piegava e i fianchi dolevano chiedendo disperatamente di più; quando volevo ancora, ancora e ancora… quelli erano i momenti che contavano nella mia non esistenza.

“Roxas?” si leccò piano il labbro inferiore una volta pronunciato il mio nome. La presenza del numero IX al mio fianco già pronto per la nostra missione, non lo disturbava.

Mi voltai lentamente, senza neanche alzare gli occhi per incrociare il suo sguardo di fuoco. Sapevo già cosa vi avrei letto.

“Axel” salutai, avvelenando il mio superiore con un tono apatico.

“Appena torni, vieni in camera mia”.

Repressi il fremito che il suo tono sensuale e irritante scatenò all’altezza del mio ventre. Saccente e dannatamente provocatorio.

“Sì”.

“Perfetto”.

Non potevo odiarlo. Non potevo amarlo. Non potevo niente, se non sprofondare tra le sue braccia ogni volta che me lo domandava. E che sapevo di volere anche io.