Chapter 1

chapter 3

“Prendili, prendili!” urlarono, rivolgendosi a chiunque stesse correndo del gruppo, composto da quattro malati mentali senza capelli e anfibi. Ronnie, su cui ero appoggiato, mi buttò su un fianco, si alzò tirandomi su anche a me per un braccio ed iniziò a tirarmi, correndo. Il rumore dell’erba calpestata dietro di noi stava diventando sempre più forte, segno che si avvicinavano.

“Dove cazzo credete d’andare, froci!” urlò uno dei ragazzi, con la voce tremendamente rauca. Accelerai, arrivando a stare dietro a Ronnie, che mi lasciò il braccio per cercare di prendere il telefonino.

Il rumore dei passi sull’erba diventarono più pesanti, anche se mano a mano più lontani. Li stavamo allontanando.

“Pronto… polizia?” disse ansimando Ron. Cercai di guardarmi indietro, continuando a correre. Ora tutto il gruppo ci stava rincorrendo, seppure non riuscissero a starci dietro.

“Siamo appena fuori Monreale, all’uscita di Via Pietro Novelli” iniziai a sentire il sudore gocciolarmi dappertutto, mentre la maglietta si appiccicava al petto. Mi voltai nuovamente, si erano fermati e stavano tornando indietro, verso la strada.

“Ron… Ron, stanno tornando indietro!” urlai, per farmi sentire da lui. Si girò di scatto, controllando, e fermandosi. Vidi uno sguardo misto a terrorizzato e concentrato, come stesse pensando a qualcosa.

“Stanno prendendo… i motorini” chiuse il telefonino dicendo un “stiamo per essere aggrediti”, mentre mi prese il braccio e corse di nuovo verso la città, data l’ampiezza del campo. Guardai in lontananza, e ancora prima di scorgere qualcosa sentii dei motori accendersi e iniziare a correre verso il punto più vicino senza recinzione, per entrare nel campo.

“Corri, Samuele, corri Cristo!” mi feci forza sulle gambe, iniziando a correre come non facevo ormai da quattro anni, quando avevo smesso di andare alle corse campestri. Lo superai, e vidi a circa mezzo chilometro le prime case, a cui chiedere aiuto. Sentii Ronnie tentare di ridere, forse dalla felicità, ma il tutto fu soffocato dal tremendo ansimare che avevamo tutti e due in quel momento.

Facemmo un altro centinaio di metri, prima di sentire i motorini avvicinarsi a velocità sostenuta. Accelerai più che potevo, staccando un po’ Ronnie. Speravo avesse potuto andare più veloce anche lui.

“Vai… là… e chiama… qualcuno!” gridò Ron dietro di me, con un filo di voce. Non riuscii a voltarmi, ma arrivai a poche decine di metri da un palazzone rosso a quattro piani e mi fiondai dentro il quartiere fatto di case maledettamente uguali, fermandomi davanti il primo portone e sbattendo una mano su tutti i citofoni presenti. Mi risposero dopo pochi secondi in più di uno.

“Chi è?”

“Chiamate la polizia, i carabinieri, vi prego, stanno rincorrendoci dei naziskin, vi prego, aiutateci” dissi, disperato. Guardai verso i campi, in cui ancora correva Ronnie, nonostante i motorini gli fossero praticamente addosso.

“Ma chi è lei? Cosa vuole da me?”

“Ma…” furono le varie risposte al citofono. Cercai di urlare più forte, evitando le domande.

“VI PREGO CHIAMATE QUALCUNO! LO STANNO AMMAZZANDO!” sentii i citofoni chiudersi quasi tutti all’unisono, e sperai con tutto il cuore avessero chiamato la polizia. Tornai indietro quanto bastava per seguire la scena. Ronnie era stato accerchiato dai bastardi.

Non potei fare altro che cercare di avvicinarmi per prenderne almeno uno di nascosto.

“Che cazzo volete, eh? Volete menarci, rubarci qualcosa? Io ho solo quello che vedete addosso, pezzenti” la voce di Ron si sparse tutta intorno, come la sirena di un allarme. Sentii dello scalpicciare intorno a me. Voltandomi, non solo trovai una decina di persone che osservavano ad alternanza me e la scena che si stava svolgendo poco più in là, ma notai anche le persone degli altri condomini affacciate fuori dalle finestre e dai balconi, per seguire la cosa.

“Oh Dio… ma cosa gli stanno facendo” un brivido di terrore mi percorse la schiena. Uno dei quattro ragazzi aveva tirato fuori un coltello con apertura a scatto, mentre due lo avevano messo per terra, mettendosi sulle sue braccia.

“Lasciatemi, figli di puttana! Lasciatemi, c’è la gente laggiù, vi ha visto! Pezzi di merda!” il ragazzo col coltello si avvicinò al volto di Ronnie. Non aspettai che finissero di ucciderlo, l’avevano già umiliato quando il terzo gli aveva abbassato i pantaloni e iniziato a tenere per le gambe. Mi mossi per andare a prendere almeno quello col coltello.

“Oddio dove va!”
“Si vuole fare ammazzare”
sentii le persone dietro di me urlare, quasi isteriche. Solo due uomini mi superarono correndo, per andare ad aiutare Ron.

Fu un lampo, un brevissimo, inutile, intenso, terrificante, istante. La lama lacerò da parte a parte il petto di Ronnie, che urlò di dolore, smettendo quasi subito di divincolarsi, accasciandosi al suolo inerme. Il gruppo di assassini lasciò andare Ronnie, e si diresse verso i due uomini. Quello con il coltello osservò un attimo la sua vittima, poi richiuse il coltello e lo infilò nuovamente in tasca, seguendo il gruppo. Io riuscii a passare quasi inosservato; dopo un breve strattone da parte di uno dei quattro ragazzi, probabilmente preso subito dagli uomini, corsi vicino a Ronnie, che ancora si muoveva lentamente, gemendo. Sentivo le lacrime scorrere sulle guance, e mi buttai in ginocchio prendendo la sua testa tra le mani e con un gesto distratto tirai su i pantaloni, per evitare che si sentisse umiliato.

“Ronnie! RONNIE! Io… oh, cazzo, cazzo, cazzo… respira, ti prego, staranno sicuramente chiamando l’ambulanza” avvertii il sangue caldo macchiarmi i vestiti, quando lo girai per vedere la ferita. Non si vedeva molto, se non una chiazza nera che si diffondeva sulla camicia blu. Lo stesso liquido rosso aveva macchiato anche il prato e continuava a fiottare dalla ferita.

“Amore… mio Dio… dai, va tutto bene, non è il cuore, non è il cuore, ti salveranno no? Non morirai… no…” dissi, piangendo. Le grida della rissa che intanto si era creata poco lontano da noi sembrava distante, impossibile da raggiungere. Misi un braccio sotto la testa di Ronnie, mentre l’altra cercava di premere sulla ferita, in modo da non far uscire sangue. Le mani si tinsero di rosso, come se le avessi immerse in un barattolo di sangue.

“Sa…” il ragazzo che stava morendo tra le mie mani sputò delle gocce miste a sangue e saliva dalla bocca. Gli occhi erano tremendamente appannati, stanchi. Era come vedere un vecchio che muore lentamente.

“Non parlare, no, tranquillo, ci sono io qui, aspetteremo l’ambulanza insieme” sentii il suo respiro iniziare a farsi più pesante, irregolare. Il sangue iniziò a colarmi sul braccio, con una mano gli staccai la maglietta dall’appiccicume sul petto e la strappai, trovando un taglio, largo quanto la grandezza di un temperino, da cui continuavano a fuoriuscire rivoli di sangue rosso scuro.

“No… no, devo dirti… almeno qualcosa… se non arrivasse l’ambulanza…” senza accorgermene, iniziai a singhiozzare, sempre più forte. Lui mosse una mano, sporca di terra, sulla mia. Non faceva pressione, ma la strinse debolmente, e io gli vidi l’espressione più terribilmente sofferente sul volto che avevo visto fino a quel giorno.

“Ron… lo so, ti amo… te lo giuro, ti amo, e ti amerò sempre, e so che lo farai anche tu, in qualunque caso, ma ti prego!” scosse la testa, come a dire che non c’era bisogno di dirlo. L’espressione di sofferenza che mostrava sembrava fosse data non tanto dal dolore di una ferita, ma da una botta, e sembrava prenderla come se prima o poi sarebbe passato. Ero così preso a guardarlo che non sentii gli uomini avvicinarsi zoppicando e le sirene della polizia arrivare.

“Ti… amo..anchio, però… non dispiacerti..ti… prego” sussurrò. Un altro colpo di tosse, e altre piccole gocce di sangue uscirono dalla sua bocca finendo sulle labbra e sul mento. Stava morendo, erano le mie mani che stavano su quel ragazzo che lentamente impallidiva. Erano le mie lacrime che finivano su di lui, il suo corpo, il quale una volta avevo così tanto desiderato, che in quel momento stava perdendo la vita. Appoggiai la sua testa al mio petto, o forse il contrario, sentivo le forze abbandonarmi, quasi stessi perdendo io tutto quel sangue.

“Oh, che suc… oh, porca puttana… Gianca’, vieni qui co’ la macchina, corri!” un carabiniere si avvicinò, tirando fuori un fazzoletto e tamponando velocemente la ferita. Non ci guardammo subito negli occhi, ma poco dopo mi vennero quasi a strappare via da Ronnie. Non gridai, sapevo che l’avrebbero salvato. Non poteva morire, era ovvio.

“Sali su anche tu, dai!” salii sulla macchina, mettendomi con le gambe sotto quelle di Ron, steso sul sedile posteriore dell’auto. Dall’altra parte il carabiniere teneva la testa di Ronnie penzolante, facendogli andare il sangue al cervello, mentre tamponava la ferita con il fazzoletto, ormai lordo di sangue. Le sirene dell’ambulanza ci passarono accanto.

“Vai più veloce, dai! Che l’ospedale è vicino” Ron chiuse gli occhi, forse sfinito da tutto quel sangue perso. Ci mettemmo poco meno di dieci minuti per arrivare all’ospedale più vicino, grazie alla sirena che faceva spostare le macchine, permettendoci di passare. Nel frattempo mi convinsi che se Ronnie fosse morto, mi sarei ucciso anchio. In qualche modo sembrava regnare quasi la calma dentro di me.

Scese prima il carabiniere che guidava, poi io, e lasciai che prendessero il mio ragazzo per portarlo dentro. Nel mentre alcuni infermieri uscirono, forse allertati da qualcuno.

“Che è successo, quanto tempo è che perde sangue?” furono le prime due domande dell’uomo. Risposi con voce quasi inesistente.

“Dei naziskin… l’hanno pugnalato al petto una decina di minuti fa” appena varcammo la porta del pronto soccorso dalla grande insegna luminosa appena sopra l’entrata del palazzo bianco, una barella e una sacca contenente un liquido trasparente apparvero come miraggi.

Caricarono lui sulla barella e mi tennero in sala d’aspetto per due ore, prima di dirmi che l’emorragia era stata calmata, ma dovevano tenerlo sotto osservazione e con tubi per la respirazione artificiale. L’infermiera che me lo venne a dire mi guardò con vaga sorpresa, vedendo come reagivo ad ogni sua rivelazione.

“Quindi è salvo? È vivo?” chiesi, guardando la donna negli occhi.

“È in condizioni molto gravi, ha un polmone completamente lacerato ed ha perso moltissimo sangue, procederemo con le trasfusioni per qualche giorno, finchè i livelli di piastrine e globuli rossi non saranno tornati a livelli accettabili… volendo puoi andare a vedere come sta, ti accompagno io” il sorriso sincero dell’infermiera fu contagioso; mi asciugai le lacrime dagli occhi e mi alzai, venendo accompagnato da lei davanti una piccola porta che introduceva ad una stanza dalle tapparelle tirate giù quasi completamente. Il caldo era insopportabile, finchè non arrivai davanti l’unico letto nella minuscola stanza, dove era presente a malapena un armadietto, un letto, delle macchine ospedaliere ed un ventilatore che girava, ozioso quanto silenzioso. Rimasi a metà tra il guardare come avessero ripulito Ronnie – ora tornato al suo aspetto quasi regale, con i capelli ondulati e neri da principe delle fiabe appoggiati sul cuscino bianco, immacolato – ed osservare i dati incomprensibili sugli schermi. L’infermiera dietro di me controllò la flebo e chiamò un altro infermiere – un uomo dalla barba malfatta e l’aspetto trasandato – per farsi aiutare con la trasfusione.

“Mauro, vai a prendere una sacca di AB positivo, per favore” rimasi lì a guardare tutto, tenendogli la mano fino all’arrivo dei suoi parenti. Arrivati loro, non sapendo nulla, spiegai che cosa era successo, prima di venire allontanato dalle urla del padre.

“Perché vi rincorrevano?” guardai negli occhi la madre, in lacrime, che me lo chiese più per curiosità che per altro.

“Ci hanno visti abbracciati” in quel momento più che un padre e una madre vidi l’uomo mutare lo sguardo oltre i baffoni in qualcosa di animalesco, mentre la madre dagli occhi più di ghiaccio che celesti, scoppiava a piangere ancora più forte.

L’uomo mi prese per il collo, alzandomi dalla sedia e buttandomi per terra. Battei la testa contro la porta, e prima che lui potesse venire ad infierire, gli infermieri che si erano appena allontanati dalla stanza lo andarono a bloccare, tenendolo e minacciando di denunciarlo. Di tutta risposta io mi rialzai con la testa dolorante, e mi avvicinai di nuovo a Ronnie, dando una mezza spinta alla madre che, essendo alta quanto me o poco meno, mi aveva preso le spalle per non farmi avvicinare.

“Buonanotte, mio principe…” diedi un bacio sulle labbra a Ron, aumentando le urla del padre e sentendo la madre iniziare a darmi schiaffi e pugni sulle ossa. Il dolore fisico non esisteva in quel momento. Mi voltai, guardandola con freddezza; il volto trasformato dalla rabbia, gli occhi arrossati, la bocca digrignata. Non era triste perché il figlio stesse in quelle condizioni, stava solo disprezzandomi per ciò che eravamo. Dovevo sfogarmi su qualcuno, e lei mi capitò malcapitatamente davanti.

“Le dirò soltanto che lei ha partorito un figlio stupendo che amo alla follia, e dev’essere stato difficile per lei fare un così grande capolavoro, visto lo schifo di persona che è” parlai in fretta, come desideroso di continuare per ore e ore. Lei rispose cercando di darmi uno schiaffo, che bloccai con la mano, prendendogli il braccio e stringendo.

“E nonostante voi abbiate tentato di uccidere la felicità di Ronnie, sappiate che con me non ha mai sofferto, a differenza che con voi” la scansai, così che desse una schienata al muro. Non osò più parlare o toccarmi. Uscii ringraziando l’infermiera – che disse un “ciao” frettoloso mentre teneva il padre di Ronnie – e mi diressi a casa. Quello fu l’ultimo giorno in cui vidi il mio Ron, vivo.

Samuele si asciugò le lacrime, colate abbondantemente sulle guance. I due che lo ascoltavano erano silenziosi, e guardavano a volte la strada a volte il ragazzo, rapiti da quella storia.

“Scusami se te lo chiedo ma… hai detto che era il diciannove agosto, ma a noi risulta che sia morto il ventuno” Samuele si calmò il tempo necessario per rispondere, prima di ricominciare a singhiozzare.

“È stato due giorni… in coma, poi il ventuno agosto sono riandato in ospedale ed ho chiesto di lui… mi hanno detto che era stata dichiarata la morte cerebrale circa un’ora prima… mi sono accasciato a terra, rabbrividendo, e poi… poi il resto lo sapete” il ragazzo si appoggiò al muro fatto di mattoncini rossi vicino un negozio di bigiotteria cinese. Prima di cadere a terra scivolando sul muro, la donna lo afferrò per le spalle, cercando di dargli un minimo di forza e conforto.

“L’importante è che il mondo veda come ciò che loro condannano sia in realtà forse un desiderio ricorrente nel modo di amare profondamente una persona” la donna – che a Samuele disse di chiamarsi Roberta Canti – continuò a far camminare il ragazzo, parlandogli di come avrebbe rivisto il servizio e di come avrebbe fatto conoscere la sua storia a tutto il mondo. Tutta la vicenda strappò al ragazzo un sorriso e il proprio numero di telefono, che venne avidamente intascato nella borsa di Roberta.

Quella sera stessa, Samuele, dopo aver parlato con sua madre di tutta la vicenda, ed averla vista passare dalla delusione al dispiacere, con tanto di “mi dispiace, ma forse era destino, lo sai” si chiuse in camera senza cenare, stendendosi sul letto, chiudendo la porta e respirando l’odore di Ronnie, ancora sul cuscino.

Pensò. Ricordò i momenti trascorsi con il suo ragazzo e si chiese cosa lui avrebbe voluto facesse ora. Rivide la sua camminata decisa dentro casa, il suo corpo su cui tante volte si era abbandonato ai piaceri, quel corpo che era capace di farlo gemere e farlo sentire protetto nello stesso istante.

Continuò a piangere, a volte singhiozzando, fino a che la madre non bussò alla porta, per dargli la buonanotte e provare a confortarlo di nuovo. L’unica cosa che percepiva Samuele dalle sue parole e dai suoi gesti era freddo, tutto ciò che cercava di toccarlo, sbatteva contro una barriera invisibile che si andava creando. Smise di singhiozzare e piangere, ritornando impassibile.

“Ho sonno mamma, vai a letto, voglio dormire” disse, atono. La madre gli schioccò un bacio sulla guancia e se ne andò, lasciandolo di nuovo solo con i suoi pensieri.

Rimase fino alle cinque di mattina sveglio. Tra scrivendo e-mail agli amici, tra preparare e stampare la lettera a sua madre, riempire il suo ultimo zaino, non si rese conto di essere diventato lento, quasi stupido.

Uscì di casa lasciando il biglietto sul tavolo, vicino a delle lattine di Coca-cola vuote e delle confezioni rosso brillante di wafer finite. Si chiuse la porta alle spalle mentre il sole non era del tutto sorto in cielo, e si sentì quasi libero. Quasi perché c’era quel senso di incompleto nel suo corpo, sopratutto all’altezza del cuore. Non ci badò più di tanto e si avviò con estrema calma verso il mare, lontano quattro ore di cammino. Durante il tragitto tuttavia, continuò a rivedere come una pellicola da cinema i momenti passati con Ronnie: a scuola, a casa sua, dove era andato con la scusa di dover fare delle ricerche per la scuola, poi nella propria invece, di casa, dove aveva fatto l’amore per la prima volta, e infine gli ultimi tragici momenti. Scorrevano a velocità pazzesca, come se non volessero essere persi prima della fine.

Arrivò sul promontorio isolato che aveva visto tante volte da piccolo, quando sua madre lo portava al mare, a giocare. Si fermò sul ciglio della costa, che gettava sulla distesa infinita di acqua, aprendo le bottiglie piene dello stesso liquido ed iniziando a berle, sebbene non avesse molta sete. Il sole caldo e la vita che v’era qualche chilometro più in là erano qualcosa di tremendamente lontano, da vedere con nostalgia. Tirò fuori anche la brutta copia della sua lettera, battuta a computer, e la accartocciò. Non ricordava minimamente cosa ci avesse scritto, rilesse solo i nomi che aveva menzionato e, soddisfatto di aver escluso i suoi zii omofobi, la buttò da una parte. Appese lo zaino a uno dei pali verdi di metallo e sentì il vento accarezzargli la pelle mentre si toglieva i vestiti, che avrebbe piegato e appoggiato vicino lo zaino, poi.

Inspirò profondamente, sentendo il vento soffiare sempre più forte, come una tempesta, diventando fresco, colorandosi del fresco degli schizzi dell’acqua; sentì l’odore di salsedine diventare mano a mano più forte e l’acqua gelida gli provocò dei brividi ancora prima del contatto con la pelle.

Il dolore fu come una puntura di un ago, prolungata per parecchi secondi.

Il tempo necessario per far arrivare il suo angelo a raccoglierlo dalle acque del mare, dove stava abbandonando il suo ormai inutile corpo.

“Spero Dio mi perdoni per essere stato così egoista” sussurrò a Ron, senza aprire la bocca.

“Sono sicuro di poterci mettere una buona parola” rispose l’immagine del ragazzo, sorridente come sempre.

L’ultimo pensiero che attraversò la mente di Samuele fu che in ogni caso, qualunque sbaglio avesse commesso, ci sarebbe stato qualcuno a testimoniare la sua voglia di vivere in paradiso, rimanendo col proprio corpo sull’ingresso dell’inferno.

Si abbracciò all’immagine di Ronnie, che si confondeva ormai con il buio delle acque, e si lasciò trasportare lontano, ovunque il cuore in quel momento volesse andare.