Autoconclusivo

Autoconclusivo

Erano anni che la osservava incessantemente e mai si sarebbe stancato di farlo. La guardava furtivo, scrutava ogni suo gesto, movimento; carpiva, senza farsi vedere, ogni sua espressione. Dal sorriso più intenso quando era in compagnia, alla tristezza e la malinconia quando invece incrociava i suoi occhi, lottando con tutto se stesso per non andarle vicino ed abbracciarla, stringerla e carezzarle il volto o i suoi bellissimi capelli neri, esattamente come i propri che teneva lunghi e splendenti come a volerla omaggiare o forse, più probabilmente, per sentirla più vicina.
Già, perché nella sua perversa quanto struggente immaginazione di notte, quando era solo, se li toccava e li accarezzava desiderando che fossero i suoi ma, purtroppo, non poteva mentirsi a lungo; lei non era lì, bensì in una stanza a fianco alla sua, abbracciata ad un altro. Allo stesso uomo che lo costringeva, anche se indirettamente, a starle lontano. Colui che gli aveva imposto una maschera di perfezione che, giorno dopo giorno, diveniva parte integrante del suo viso ma che si sarebbe sgretolata come sabbia al vento qualora si fosse lasciato andare anche solo una volta. Se l’avesse stretta tra le braccia, le avesse baciato una guancia candida e leggermente rosata o detto quello che provava.

Deglutì al pensiero dell’espressione di puro stupore che colei, che ai propri occhi appariva come una divina creatura, avrebbe assunto nel caso in cui fosse successo; al pensiero di quelle labbra rosse e appena carnose leggermente incurvate verso l’alto in un dolcissimo sorriso, per una volta riservato solo a lui come in passato. A quella flebile e candida voce invocare il suo nome, le sue mani tiepide toccare le proprie o guardarlo e carezzargli il viso mentre lui, sebbene volesse ammirarla, avrebbe abbassato le palpebre per gustarsi meglio quel soave tocco. Eppure davanti a lui, ancora una volta, vi erano solo la sua schiena dritta, perfetta, fasciata dalla solita maglia nera e le bretelle del grembiule, e le sue spalle minute che gli sembravano esprimere la distanza che vi era tra loro sino a quando, finito di fare quanto doveva, finalmente si voltarono con gesto lento e grazioso mentre lei diceva:
“Itachi chiama tuo fratello e tuo padre…”.
Quella voce pacata e soave riportò definitivamente lo shinobi alla realtà, tuttavia, vedendo quegli occhi neri fissare i propri, improvvisamente sentì la gola secca che dovette inumidire con quel poco di saliva che aveva in bocca deglutendo. Restando immobile si chiese se si fosse accorta che la stava guardando, di ciò che stava pensando e della voglia che aveva di sentirla vicina, di abbracciarla ma, vedendo che la sua espressione non mutava, capì che così non era; che probabilmente il suo viso impassibile, fortunatamente, ancora una volta non lo aveva tradito. Impassibile si alzò, fece un cenno d’assenso con il capo, piano si voltò per uscire dalla cucina e quindi, una volta giunto in sala, disse:
“E’ pronto…”.

“Evviva!” esultò il più piccolo spegnendo la televisione e scendendo dal divano su cui era seduto mentre il padre, ripiegato il giornale che stava leggendo, lo posò sul basso tavolino in vetro davanti a lui e quindi si alzò per andargli incontro, preceduto da un Sasuke che, entrando in cucina, esclamò:
“Che buon profumo…”.

“Ti sei lavato le mani?” chiese la donna sorridendogli.

“Ho fatto il bagno appena sono tornato e poi sono stato sempre sul divano…” la rassicurò.

“Va bene, mettiti a tavola” disse lei scompigliandogli i capelli.

“Sì” rispose il piccolo con un sorriso per poi andarsi a sedere al fianco di Itachi che in silenzio aveva osservato la scena desiderando, per un momento, di essere al suo posto e chiedendosi quando fosse stata l’ultima volta che lui le aveva sorriso a quel modo. Aveva solo tredici anni eppure non se lo ricordava… forse era stato quando ne aveva sette, oppure sei o addirittura cinque…? Tanto, troppo per non ricordarselo… Eppure anche lui aveva bevuto il latte dal suo seno, le aveva stretto la mano, le aveva sorriso dolcemente, si era nascosto dietro la sua gonna o l’aveva abbracciata forte. Tuttavia erano ricordi lontani che a volte pensava essere solo sogni o immagini che aveva visto o vissuto tramite il fratello. Quello stesso fratello che amava dal più profondo del suo essere ma che invidiava per il semplice fatto che lui poteva abbracciarla, darle un bacio o anche solo sorriderle. Quel fratello che vedeva tanto simile a se stesso nella ricerca di attenzione da parte del padre che però gli era negata per essere rivolta esclusivamente a lui; la stessa attenzione che ora lo costringeva ad essere quel che era. Già, perché una lode alla tenera età di quattro anni si era trasformata in un’ossessione. Difatti non serbava memoria dell’abbraccio della madre, ma ricordava perfettamente la prima volta che aveva preso un kunai e lo aveva piantato nel centro del bersaglio, ovvero il ventaglio raffigurante lo stemma del clan dipinto sul muro di cinta di villa Uchiha, davanti gli occhi del padre che, vedendolo, gli era corso incontro. Lui pensava che volesse sgridarlo per aver preso i suoi pugnali senza permesso ed invece l’uomo gli aveva chiesto di rifarlo. Senza dire nulla aveva obbedito realizzando nuovamente un centro e poi ancora, ed ancora, fino a colpire cinque bersagli in fila uno dietro l’altro. A quel gesto aveva visto lo sguardo del padre illuminarsi; finalmente aveva attirato la sua attenzione, solitamente rivolta ad altro, e quindi aveva deciso di superarsi lanciandone altri che ovviamente colpirono tutti l’obbiettivo da lui designato. Un gioco da ragazzi dato che si era allenato per farlo, per lui era solo un divertimento in fondo. Aveva solamente quattro anni, da allora fu una strada tutta in salita o discesa, dipendeva dal punto di vista; da allora non era più andato a fare la spesa con la mamma, stava a casa con un maestro che gli insegnava a leggere, scrivere correttamente e gli faceva fare qualche piccolo esercizio. Le persone per strada non gli facevano più i complimenti perché era un bel bambino ma perché era un bambino speciale e lui, orgoglioso del modo in cui il padre lo guardava, aveva deciso di fare di tutto pur di meritarsi appieno la sua approvazione. Il primo passo fu quello di cercare di comportarsi da uomo, imitando gli adulti, emulando prima Shisui, più grande di lui di sei anni, e poi gli uomini che vedeva alle riunioni a cui il padre aveva iniziato a portarlo. Così senza accorgersene il suo sorriso di bambino si spense per lasciare il posto ad una maschera di compostezza ed eleganza senza eguali, ma ciò lo aveva anche allontanato dalla persona che amava più di qualunque altra cosa. Da colei che gli era sempre stata vicino e che lui, per uno stupido gioco prima e per immagine poi, aveva allontanato proseguendo sulla sua fittizia strada di gloria. All’età di sette anni fu promosso come primo della classe all’accademia ninja, ad otto padroneggiava già l’abilità innata del suo clan, lo sharingan, ed ora che ne aveva tredici era a capo di una squadra ANBU. Ciò che era nato come uno scansarla solo per non essere considerato un moccioso aveva preso a rimpiangerlo, a desiderarlo ardentemente e a bramarlo; ma ormai era troppo tardi, lo era da molto. Non poteva tornare indietro, non poteva pretendere che lo guardasse come quando era piccolo perché era cresciuto davvero, perché non si era fermato quando era ancora in tempo, perché ormai sulle sue spalle già gravavano molte colpe, molti peccati. Perché era stato così stolto da lasciarsi trasportare in qualcosa più grande di lui, senza capire che l’approvazione, che i primi tempi il padre gli riservava, presto si sarebbe trasformata in pretese che non lo avrebbero più lasciato libero. L’uomo lo scrutava in ogni minima cosa aspettandosi sempre il meglio e lui non poteva sottrarsi, era costantemente sotto esame, lo era da tanto tempo. Già, era da molto che non era più libero di fare nulla, neanche abbracciare la persona a cui voleva bene come desiderava. Solo a Sasuke gli era concesso rivolgere un sorriso gentile perché era piccolo, perché non era considerato dal padre in quanto una persona normale ma soprattutto perché, in fondo, si limitava a dargli un buffetto sulla fronte e dirgli che si sarebbe occupato di lui un altro giorno o portarlo sulle spalle qualora fosse troppo stanco; tutte cose che mettevano in risalto il suo lato fraterno e non un’eventuale indole debole che lo avrebbe screditato agli occhi del padre. Eppure anche con il fratello avrebbe voluto avere un rapporto differente, più normale. Soffriva nel vedere i suoi tentativi di raggiungerlo, eguagliarlo e quindi sfinirsi dietro ad estenuanti quanto purtroppo inutili allenamenti per attirare l’attenzione di un padre che non lo considerava affatto, desiderando urlargli con tutto il fiato che aveva in gola di smetterla di cercare quell’approvazione. Che una volta ottenuta non gli sarebbe rimasto nulla, che, come lui, sarebbe stato infelice e unicamente una marionetta nelle sue mani ma non poteva farlo, poteva solo osservare, passivo, gli avvenimenti. Come fissare la madre e ricordare quello che era stato reprimendo le lacrime, cancellando ogni emozione e rispondere ad ogni domanda con un inespressivo:
“Va bene…” come in quell’occasione.

“Allora andiamo, Mikoto non aspettarci svegli”.

“D’accordo caro…”.

E quindi uscire per l’ennesima riunione che una volta gli sembravano un agognato punto d’arrivo e che ora invece erano routine e tempo in più sottratto a quello, già di per sé abbastanza ristretto, che poteva passare con la madre, senza neanche rispondere al fratellino che augurava la buonanotte ad entrambi.

Silenziosamente i due Uchiha uscirono dalla porta del retro per entrare poco dopo in quella di un grande vano già pieno di persone che, vedendoli, li salutarono con un cenno della testa e si sedettero sulle sedie predisposte per iniziare l’ennesimo dibattito. Come sempre, da qualche anno a quella parte, si parlava esclusivamente dell’emarginazione del clan il quale, tempo addietro, era stato letteralmente ghettizzato in un quartiere per essere osservato; degli sguardi ostili degli altri clan importanti quando mettevano piede fuori da esso e della voglia, sempre più forte, di prevaricare e tornare ad essere la maestosa casta che erano agli albori. Nonché di voler chiedere più potere, dato che l’occuparsi della gestione delle forze armate di Konoha era palesemente uno specchietto per le allodole, un incarico che gli era stato concesso di mantenere per tenerli occupati e farli stare il più lontani possibile dal palazzo dell’Hokage e dalla politica interna del villaggio.

“Penso che sia giunto il momento di prenderci ciò che ci spetta e, se continuano a negarcelo, lo faremo con la forza!” urlò Fugaku “è inconcepibile che ci trattino così, ed ogni giorno è sempre peggio… ci temono ma usano i nostri figli a loro piacimento arruolandoli e sbattendoli in prima linea… E’ ora di finirla!” e fu largamente acclamato come al solito, anzi, più del solito.

Ed intanto Itachi lo guardava in silenzio, con le spalle appoggiate al muro, le braccia incrociate e lo sguardo puntato fisso, sì su di lui come gli altri ma, a differenza loro, impassibile, pensando a quando anche lui lo aveva guardato con occhi ammirati, pieni di rispetto o affascinato dal suo entusiasmo dato che ora vedeva solo un uomo che non faceva altro che pensare al clan mettendo tutto e tutti al di sotto di esso, pronto ad usare qualunque mezzo per raggiungere il suo scopo. Lo vedeva urlare, sbattere i palmi sul tavolo che aveva davanti, gli sguardi estasiati della gente e nel mentre pensava a quanto fosse diverso in casa, quando guardava Mikoto. Sì, perché ogni tanto la guardava e quando lei gli sorrideva, come per magia, in quel momento sembrava addolcirsi. Parlavano a lungo, di lui, di Sasuke, la madre lo abbracciava e Fugaku la ricambiava. Lui poteva, al contrario suo, fissarla negli occhi, stringerla fra le braccia, baciarla, accarezzarla e dirle che l’amava come, dove e quando voleva eppure non lo faceva. Poteva dedicare ogni momento della giornata a quella meravigliosa creatura che aspettava una sua carezza come Itachi aspettava la sua ed il padre non ne approfittava. Ma forse poteva permetterselo perché aveva l’intera notte a disposizione per farlo, ore che a lui non erano concesse, che erano limitate a minuti contati nell’arco della giornata: colazione, pranzo e cena.

Tuttavia fu riportato alla realtà dall’ennesimo caloroso applauso seguito dal rumore delle sedie, che strusciavano sul pavimento per via del fatto che la gente si stava alzando per andare via o per parlare più da vicino con il padre.

Sentiva la voce di Shisui, che la pensava esattamente come Fugaku, ripetergli per l’ennesima volta quanto lo ammirasse, quanto le cose che aveva detto fossero più che giuste ed infine salutarlo prima di uscire mentre lui, come sempre, aveva risposto a tutto con un semplice cenno del capo e, quando alla fine l’uomo lo raggiunse, uscirono per fare ritorno a casa.
“Domani sarà una lunga giornata…” gli preannunciò Fugaku che poi aggiunse “a che ora devi partire?”.

“Alle 9.00”.

“Quando tornerai?” si informò.

“Tra una decina giorni” rispose.

“Cerca di fare presto, ho bisogno che tu stia al villaggio in questo periodo…”.

“Farò del mio meglio…”.

“Come sempre! Non mi aspetto nulla di meno da te” affermò aprendo la porta di casa e, sentendo la voce del televisore accesa, si diresse in salone dove trovò la moglie seduta sul divano e Sasuke che dormiva con la testa poggiata sulle sue gambe e quindi disse “ti avevo detto di non aspettarci…”.

“Stavo vedendo un film” sorrise la donna.

“E’ finito?”.

“Non ancora… Lo guardate con me?” chiese.
“Itachi deve andare a dormire, domani deve alzarsi presto” rispose il marito per lui, il quale rispondeva spesso al suo posto, specie se si trattava della madre. Neanche quello gli era concesso fare.

“Oh, come mai?” domandò la donna.

“Deve partire per una missione…Sasuke…” lo chiamò.

“Non me ne avevi parlato…” disse tristemente Mikoto rivolta al figlio per poi riportare la sua attenzione al marito dicendogli “lascialo dormire lo porto io”.

“Non sta bene…ha quasi otto anni ormai… Te lo avrebbe detto domani…”.

“Come sempre” sospirò non sapendo che il figlio lo faceva apposta.

Difatti il ragazzo voleva godersi appieno quel momento; l’unico in cui la donna gli si avvicinava, gli carezzava il viso e gli faceva mille raccomandazioni che non ascoltava perché troppo concentrato sul suo delicatissimo tocco ed il timbro melodico e dolce della sua voce. Infatti, se lo avesse fatto prima, la magia avrebbe perso ogni significato in quanto le sue raccomandazioni si sarebbero prolungate da quando la metteva al corrente della missione a quando sarebbe partito e, di conseguenza, il padre l’avrebbe ammonita dicendole di non trattarlo a quel modo o di non mettergli agitazione e la donna si sarebbe trattenuta come era già successo, facendolo partire con il ricordo della tristezza impressa sul suo bellissimo viso. Al contrario in quel modo, tutta la sua attenzione, era concentrata in quei pochi attimi di intimità che si andava a creare tra loro, unici, intensi, e che trasformavano un atto di odio, di orrore, e spesso di sofferenza e morte, nel momento che il ragazzo attendeva più di ogni altra cosa: la missione.

Ogni giorno, ogni minuto, ogni istante pregava che gliene fosse assegnata una per potersi godere quegli attimi che per lui valevano più di un tesoro e quelle carezze che gli scaldavano il cuore e lo facevano partire sereno.

Tuttavia ancora una volta tacque e si limitò ad avvicinarsi a lei per prendere in braccio Sasuke, semidestato dalle loro voci, per portarlo a letto, ed ancora una volta si trovò ad invidiarlo sentendo su di lui l’odore della madre; il suo inconfondibile profumo, quello che avrebbe riconosciuto tra mille. Lo stesso che, quando era piccolo, lo avvolgeva e lo inebriava. Il profumo che voleva dire affetto, amore, e che lui doveva accontentarsi di sentire fievole, lontano. Con un velo di malinconia mormorò un flebile buonanotte e, lasciando i genitori seduti sul divano, si avviò verso le scale inspirando profondamente, come a non voler lasciare neanche un po’ di quel meraviglioso aroma nell’aria circostante ma, man mano che camminava, si ritrovò a stringere il fratello più forte contro il proprio pretto, così da avvicinarselo maggiormente e poter sentire meglio l’odore di cui quei capelli si erano impregnati. Ed ogni scalino era una domanda: per quale motivo Sasuke poteva e lui no? Perché era cresciuto? Per quale ragione era toccato a lui il ruolo di fratello maggiore?

Tuttavia, a riportarlo alla realtà, fu il fratellino stesso che, sentendosi cingere con tanta intensità, gemendo sommessamente, lo strinse a propria volta mugolando il suo nome e quel piccolo gesto bastò a dissolvere le tenebre che lo avvolgevano. Quello era Sasuke, il suo fratellino, colui che, come lui, stava soffrendo nel non ricevere l’affetto e le attenzioni da parte di chi anelava riceverle, ovvero suo padre. Due fratelli, un solo tormento, una sola colpa; essere nati in quel clan.

Giunto in camera del minore, piano lo pose sul letto, lo svestì, gli mise il pigiama e quindi si abbassò a dargli un bacio sulla guancia ma, quando per un ripensamento si stava rialzando, fu prontamente abbracciato dal più piccolo che, buttategli le braccia al collo, lo strinse dicendo:
“Ti voglio bene Itachi…”.

Parole che gli scaldarono il cuore ma che lo fecero sentire anche terribilmente in colpa per aver provato gelosia nei suoi confronti, così piccolo, così tenero, così puro… Eppure non riusciva a frenare tale infido sentimento, poteva solo reprimerlo, ripetersi ogni volta che era assurdo invidiare chi si amava, che non aveva otto anni come il fratello nel quale, a volte, nel suo sguardo innocente si poteva leggere ammirazione mista ad invidia. Lui non poteva permetterselo; non poteva permettersi neanche gesti tanto dolci come quello che stava per compiere dato che doveva mantenere la sua maschera di perfezione con tutti, anche con lui e così, dandogli quel fugace bacio, spense la luce, gli augurò la buona notte e tornò nella propria stanza in attesa dell’alba quando, finalmente, la madre sarebbe entrata in quella camera per svegliarlo.

“Itachi… Itachi, sono le 5.30…è ora di alzarti…”.

La sua dolce voce lo riportò, come ogni mattina, alla realtà. Lo destò da quel sogno che ormai faceva quasi ogni notte, o meglio, in quelle in cui sognava e più precisamente in cui si ricordava ciò che era avvenuto.

In quel magnifico quanto immaginario mondo c’erano Mikoto ed ovviamente lui, che entrava nella sua stanza, si avvicinava al suo letto, quello in cui la donna dormiva sempre con quell’uomo, e le si sedeva a fianco. Lei gli sorrideva, allungava una mano per fargli una carezza, gli sfiorava la pelle, i suoi occhi guardavano dritti dentro i propri mentre si avvicinava col busto e l’abbracciava. Poi lei gli dava un bacio su una guancia, lo chiamava tesoro, lo stringeva forte contro il suo petto e lui la ricambiava. La sentiva più grande del solito ma la sua vita era sempre fine, le sue braccia sempre delicate. Itachi la cingeva e si perdeva nel suo profumo, poi giocava con i suoi capelli, li lisciava, si divertiva con le ciocche arrotolandole attorno il suo dito ed allora Mikoto gli prendeva la mano, così piccola ed ancora innocente, e vi deponeva sopra un bacio. Lo faceva sdraiare, lo copriva con il lenzuolo e quindi si appisolava al suo fianco così che lui potesse guardarla. Potesse osservare ogni suo lineamento e darle a propria volta un bacio su una gota prima di guardare la propria immagine riflessa nello specchio posto dietro di lei, che rivelava un bambino di cinque anni. Un bambino solo nell’aspetto, o forse anche nell’anima ma questo lei non lo sapeva, nessuno lo poteva sapere, come nessuno era in grado dire se quello fosse un sogno o solo un dolce ricordo gelosamente custodito nel suo cuore. Ma tutto ciò non aveva alcuna importanza perché esso, al risveglio, svaniva lasciando solo una triste ma bellissima sensazione dentro quel corpo che agli occhi di tutti appariva come un guscio perfetto ma privo di sentimenti, e che in quel momento il proprietario rifiutava di muovere solo per poter ascoltare nuovamente quelle parole. Otto comuni parole, nonché il suo nome, e sperare che la donna si avvicinasse e gli toccasse anche solo una spalla per scuoterlo. Desiderio vano dato che, come sempre, poco distante da quella porta Itachi udì i passi lenti eppure decisi del padre che lo costrinsero a muoversi, poiché non poteva permettersi di farsi vedere ancora a letto dopo essere stato chiamato. Lentamente e con grazia si mise a sedere e quindi girò la testa per vedere il bellissimo sorriso che, come tutte le mattine, la madre gli riservava assieme alla parola:
“Buongiorno”.

“Buongiorno” rispose lui con la voce limpida, che forse avrebbe potuto smascherare il fatto che era già sveglio da un po’, pensiero che però passò subito in secondo piano perché la sua attenzione si focalizzò sulla schiena dritta e perfetta che la donna gli volse dicendo:
“Preparati, io intanto faccio la colazione” ed in quel momento più che mai lo shinobi dovette trattenersi dall’urlarle dietro: mamma aspetta! Voltati, guardami, chiamami ancora amore, tesoro, piccolo mio…chiedimi ancora se ti voglio bene e quanto te ne voglio… Sorridimi ancora come facevi quando ero il tuo bambino, abbracciami, baciami come facevi nel mio sogno, stammi vicino! Ma, ancora una volta, per l’ennesima, si trattenne. Non poteva permetterselo, poteva solo stringere le lenzuola ormai intiepidite che erano sul suo letto tra le mani, mordersi appena le labbra per dissipare ogni tentazione e, non appena essersi calmato, andare in bagno per farsi una doccia purificatrice. Poi, dopo essersi lavato, indossò la divisa da ANBU e quindi scese in cucina dove i genitori lo stavano aspettando. La colazione si svolse come al solito, sebbene Itachi attendesse con ansia l’odioso momento in cui si sarebbero separati ma che gli sarebbe valso un tocco gentile della madre. Essa infatti, quando si alzò, dolcemente gli si avvicinò e, con un sorriso tirato, gli carezzò una gota dicendo:
“Mi raccomando, sta attento” e quindi gli si avvicinò ulteriormente per dargli un bacio.
“Si” rispose lui gustando il calore delle sue morbide labbra sulla propria guancia chiudendo gli occhi per alcuni secondi, fino a che non si scostò per lasciare il posto al padre che gli disse:
“Fatti onore e torna presto”.

“Si” ripeté il ninja prima di prendere quanto la madre gli porgeva e quindi salire in camera per mettersi la maschera, il mantello e con l’occasione passare a salutare il fratello ancora profondamente addormentato. Poi, una volta uscito, si diresse all’entrata del villaggio dove, appena arrivarono i suoi compagni, partirono.

Furono giorni pesanti ma che, come tutti gli altri, volarono e concessero un po’ di tregua ad Itachi che solo quando era in missione poteva concedersi una pausa dai suoi tormentati pensieri per potersi concentrare sulla battaglia. Inoltre le notti poteva respirare dato che la maggior parte delle volte il sonno era tanto leggero che non gli permetteva di sognare in quanto, a causa della tensione e della guardia, non arrivavano alla fase rem in cui il cervello elabora le immagini che li formavano ma, qualora avvenisse, si limitava a rielaborare quanto accaduto durante il giorno. Così la missione, che solitamente per tutti era momento di sentimenti contrastanti come sconforto, voglia di mostrare il proprio valore, angoscia, orgoglio e giustizia, per lui era unicamente una via di salvezza. Un luogo lontano da casa, dalla sua famiglia e più precisamente dal padre e dalla madre, che indubbiamente gli mancava ma che non avendo sotto gli occhi gli permetteva di non tormentarsi.
Catturati i criminali designatigli dal rotolo che l’Hokage gli aveva consegnato, la squadra speciale si apprestò a far ritorno al villaggio anche se, se avesse saputo cosa lo attendeva al suo rientro, l’Uchiha avrebbe fatto a meno di salvare la pelle. Difatti, non appena aveva messo piede dentro casa, un’aura pesante l’aveva circondato e la voce allegra del fratello che accorreva a salutarlo fu stroncata da quella greve del padre che, dietro di lui, ignorando le condizioni del maggiore diceva:
“Finalmente sei tornato. Devo parlarti”.
“Caro non puoi aspettare… E’ ferito…” disse Mikoto col viso tirato, probabilmente a causa della vista del suo viso graffiato non appena aveva tolto la maschera, del mantello strappato e la divisa sporca di sangue all’altezza della coscia e dell’addome.

“Ora” rispose l’uomo il quale, vedendo che si reggeva perfettamente in piedi, aveva capito che il suo medico aveva fatto il proprio lavoro.
“Si” rispose il giovane shinobi affidando la maschera ad un Sasuke che lo guardava estremamente ammirato; il fratello riusciva ad essere bello anche sporco di sangue, a camminare dritto e composto malgrado il dolore che probabilmente provava, il suo viso rimaneva alto ed immutabile nonostante tutto come il rispetto che lui provava nei suoi confronti così, stringendo quel pezzo di legno colorato tra le dita, andò vicino alla madre e con voce dolce gli disse:
“Starà bene…appena papà lo lascia libero gli portiamo le bende…”.

“Si, intanto andiamo a riempire la vasca di acqua tiepida… gli farà piacere” sospirò lei accarezzandogli la testa mentre, nello studio poco lontano, Itachi chiedeva:
“Cosa succede?”.

“L’Hokage non ha accettato nessuna delle richieste che gli ho sottoposto ed al contrario, quando a discussione degenerata gli ho chiaramente fatto notare la nostra emarginazione, i consiglieri si sono lamentati fingendosi scandalizzati da tale affermazione precipitandosi a dire che non era assolutamente vero. Anzi, hanno affermato che gli incarichi che ci hanno assegnati sono di altissimo valore. Hanno addirittura osato prenderti come esempio quei maledetti bastardi… Poi, non contenti, prima di congedarmi mi hanno fatto capire che non solo essi sono più che sufficienti ma, con un lungo quanto mellifluo giro di parole, che invece di lamentarmi dovrei ringraziare che ce ne diano e ci permettano di continuare a vivere accanto al loro villaggio! Non solo hanno umiliato me ma tutto il clan… Non vogliono riconoscere la nostra forza, la temono e quel vecchio dell’Hokage non dice una parola. Non posso più tollerarlo, non voglio più tollerarlo!” e, vedendo che il figlio non proferiva parola “è ora di agire…”.

Quattro parole, un lampo negli occhi, la fine di tutto; della pace, dell’armonia del villaggio, della famiglia, dei suoi uomini e di tutti quelli che erano alla Foglia. Ecco ciò che Itachi vide in quell’ultima affermazione che, contro ogni sua volontà, lo portava a dover fare una scelta; una terribile scelta. Una scelta che si era già imposto di dover prendere qualora le cose non si fossero fermate solo alle parole, come era sempre stato, ma fossero sfociate nei fatti dato il tono che avevano assunto le riunioni negli ultimi mesi. Una decisione che lo divideva in due: il clan o il bene del villaggio e la pace. Una scelta difficile, che aveva sperato di non dover mai prendere.

“Non possiamo continuare così… E’ arrivato il momento che capiscano cosa voglia dire mettersi contro il clan Uchiha, comprendano la nostra frustrazione… e soprattutto capiscano qual è il loro posto!”.

“Cosa devo fare?” chiese, era inutile cercare di prendere tempo, discutere, provare anche solo a parlare. Il suo compito era sapere.
“Spiali come hai sempre fatto, anzi molto di più; sorveglia ogni loro movimento, ascolta ogni parola, osservali, voglio sapere ogni singola mossa che compiono, ogni loro abitudine, ogni dialogo… Voglio sapere tutto, anche la cosa più insignificante e, una volta che ciò avverrà, li attaccheremo! Si, li annienteremo per prenderci ciò che ci spetta e faremo fuori chiunque provi a contrastarci!” affermò.

“Si” si limitò ad annuire un Itachi che poi si congedò per andare in bagno, dove si immerse nella vasca d’acqua tiepida con la testa piena di pensieri.

Il fatidico momento era dunque giunto, doveva fare la sua scelta. Il villaggio o il clan, non aveva altre vie, non aveva altre possibilità, solo un bivio.
Il clan che chiedeva giustizia o il Villaggio con i suoi abitanti. La guerra o la pace.

Nelle sue mani c’era un potere, un enorme potere, ovvero quello di cambiare il destino di molte, troppe persone. Un potere eccessivamente grande anche per lui ma del quale non poteva sbarazzarsi. Un potere che lo avrebbe portato ad una decisione dolorosa, a delle rinunce. Un potere che gli era stato conferito a causa della sua maschera di perfezione e del suo cognome i quali, mai come in quel momento, si ritrovava ad odiare. Ma era inutile continuare a pensarci, inutile quanto impossibile, doveva scegliere: continuare a fare la spia per il clan come era stato sino ad allora, da quando suo padre gli aveva ordinato, approfittando della sua carica, di fare il doppio gioco e di informare l’Hokage di una minima parte delle riunioni, solo per guadagnarsi la loro fiducia e fargli credere che fosse una spia, o fare il triplo gioco; tradire il clan, Fugaku, e rivelare all’Hokage il pericolo incombente ?

Era una decisione difficile, atroce, qualsiasi cosa avesse scelto probabilmente avrebbe sbagliato. Se sceglieva la propria casta avrebbe fatto scoppiare una nuova guerra, costretto la madre ed il fratello a vivere nel terrore, terrore di un imminente attacco da parte degli altri grandi clan che risiedevano a Konoha, che non sarebbero mai stati disposti a vedere il suo in testa, di chi aveva perso un caro e dei villaggi vicini che probabilmente li avrebbero attaccati nel momento in cui erano più deboli.

Avrebbe dovuto uccidere i suoi compagni di squadra e le persone che conosceva.

D’altronde, se avesse scelto il villaggio avrebbe automaticamente bandito il suo clan da Konoha, condannato a morte il padre, che non avrebbe retto al disonore o sarebbe stato ucciso dai suoi stessi compagni, i quali lo avrebbero ritenuto colpevole, fatto soffrire la madre, il fratello, Shisui… avrebbe tradito quella che era la sua famiglia, coloro che lo rispettavano, che non lo avevano mai guardato in modo ostile, che gli sorridevano e, soprattutto, avrebbe ferito la sua Mikoto.

Il pensiero di quella dolce creatura col volto bagnato di lacrime e la voce interrotta dai singhiozzi, lo facevano star male. Sì perché lui poteva benissimo vederla, era come se già l’avesse lì, davanti a lui, che lo fissava colpevole o forse terrorizzata.

‹‹Cosa devo fare?›› si chiese, richiese e ripeté per un’ora, fino a che la donna non lo ridestò da tali pensieri chiedendo:
“Itachi hai finito?” la sua voce già bassa ancora più affievolita a causa della porta chiusa che li separava.

“Si…” rispose lui uscendo dalla vasca e avvolgendosi in un accappatoio lungo sino ai piedi, uno dei pochi oggetti che gli ricordavano la sua tenera età dato che era lungo quanto quello dei genitori, per poi aprire la porta e guardarla, con le sue gote appena arrossate e la fronte leggermente imperlata di sudore a causa del vapore e della temperatura.

“Come stai?” gli chiese dolcemente Mikoto.

“Bene” disse pensando ‹‹richiedimelo, fammi sentire di nuovo la tua dolce voce, fammi vedere ancora i bellissimi occhi fissi sui miei; fallo ancora, affinché io non possa mentirti due volte…›› ma, come sempre, la donna non insisté e quindi disse solo:
“Tuo fratello ti aspetta in camera con delle garze… Se hai qualche graffio mettile” ed intanto gli sfiorò una guancia su cui ve ne erano alcuni.

“Va bene” assentì resistendo alla tentazione di chiudere gli occhi mentre il suo più profondo io voleva gridarle ‹‹non farmele mette da solo…mettimele tu, toccami ancora, baciami la ferita dicendomi che così passerà prima come quando ero un bambino, compi ancora quella piccola e delicata magia…›› ma anche lui tacque.

“Allora vi aspetto giù per la cena” concluse la donna ritirando la mano e voltandosi per scendere le scale ed andare in cucina mentre Itachi, non appena la vide sparire, si risolse ad andare nella propria stanza sentendo solo una volta che si fu mosso di avere i muscoli delle gambe estremamente tesi, irrigiditi, come ogni volta che parlava con lei. Tuttavia continuò a camminare sino ad arrivare in camera dove, come gli era stato detto, Sasuke lo attendeva seduto sul suo letto con accanto la cassetta del pronto soccorso e non appena lo vide alzò lo sguardo sorridendogli dolcemente mentre Itachi, varcata la soglia della stanza, arrivava al cassetto dove teneva la biancheria che successivamente prese per infilarsela. Poi, messi i boxer ed una maglia nera a maniche corte, si avvicinò al minore che gli porse delle bende e quindi si fasciò una coscia ed il gomito notando come l’altro lo guardasse con occhi trasognanti eppure tristi. Forse perché lo voleva fare lui, forse perché voleva essere lui, proprio come Itachi desiderava essere al suo posto. Avrebbe voluto chiedergli cosa gli passasse per la testa ma tacque, ancora, la sua vita in fondo era fatta di silenzi. Una volta finito, notando che il fratello lo stava ancora osservando, allungò una mano per fargli una carezza ma poi si ravvide e quindi gliela poggiò sulla testa e scompigliandogli leggermente i capelli disse:
“Porta la cassetta di sotto, io arrivo subito”.

“Si” rispose il più piccolo uscendo e lasciandolo solo, così che potesse finire di vestirsi prima di scendere.

Dopo quella sera, Itachi fece come gli era stato detto. Ma nonostante cercasse di restare impassibile, quando calava la notte, o quando era solo, e poteva pensare, il turbamento si faceva largo sul suo bel viso solitamente inespressivo. Un turbamento che poteva essere notato solo da qualcuno che lo osservava attentamente, da molti anni, che riusciva a carpire ogni minima espressione che vi si dipingeva sopra e che, non riuscendo più a fare finta di nulla, una sera bussò alla porta semiaperta della sua stanza chiedendo:
“Itachi posso entrare?”.

“Mamma…” mormorò il ragazzo sorpreso da quell’inaspettata visita e facendo un cenno d’assenso col capo.

“Si” disse lei richiudendosi la porta alle spalle prima di avvicinarsi al suo letto e domandare “tutto bene?”.

‹‹No, non va bene per niente…›› “si”.

“Ne sei sicuro? Ultimamente mi sembri strano…” disse lei sedendosi; la voce dolce, pacata e gentile.

“Va tutto bene…” la rassicurò guardandola dritta negli occhi ma stringendo leggermente il lenzuolo sotto di sé, riuscendo a mentirle una seconda volta.

“Ed allora perché stringi le coperte?” chiese ancora poggiando una mano sulla sua facendolo leggermente sobbalzare e deglutire.
Quanto aveva atteso quel momento, quanto aveva atteso quelle parole… ma non poteva parlare. Non poteva dirgli cosa stava succedendo, non poteva farla preoccupare tanto, scaricare tutto quel peso sulle sue piccole spalle, piccole quanto le sue, su cui ricadevano capelli neri come i suoi ma che erano le spalle della sua mamma, che alla propria vista appariva come un concentrato di perfezione, dolcezza, purezza e fragilità.

“Perché ho freddo…” mentì ancora, incredibilmente ma, non riuscendo più a farlo guardandola negli occhi, abbassò lo sguardo per puntarlo sul dorso di quella mano candida e sottile che ora stringeva la sua, infondendogli quel calore che solo la persona amata sa dare.

“Non mentirmi…” lo ammonì bonariamente la donna carezzandogli una gota, ormai liscia e priva di ogni traccia della missione precedente, con l’altra.

“Io…” mormorò lo shinobi mordendosi le labbra.

“E’ per la missione che ti ha dato tuo padre?” domandò.

“Tu, tu lo sai?” chiese Itachi alzando di scatto il viso, lo sguardo alterato da un’espressione di sorpresa.

“Si…”.

“Perché?”.

“Perché, anche se non sembra, io e tuo padre parliamo molto… E non solo di te o di Sasuke, ma anche del clan…” disse piano.

‹‹E’ questo che vi ha fatto restare uniti per tutto questo tempo? E’ per questo che tu continui a volergli bene, vero mamma? Perché, nonostante la sua freddezza, il suo carattere chiuso e la sua fissazione per il clan, ti guarda come tu ora stai guardando me? Dici che parlate ed allora come mai non hai fatto nulla per non allontanarmi? Per non impedirgli di portarmi via da te? Per quale motivo non fai nulla quando ignora Sasuke?›› si chiese, ma la risposta era ovvia: non poteva. Nessuno poteva opporsi al padre e lui lo sapeva bene. Per qualche strano motivo tutti ne erano succubi, la madre, lui, il fratello che lo ammirava più di qualunque altra cosa e che, come aveva fatto lui, ne ricercava le attenzioni fino allo sfinimento e poi tutto il clan.

“Non ne vuoi parlare?” chiese la madre vedendo che non le rispondeva ma che la guardava, desiderando sapere come non mai cosa passasse nella mente del figlio.

“Non lo so…” disse finalmente Itachi.

“Non tenerti tutto dentro… Non è gusto” disse la donna riprendendo ad accarezzargli la guancia e chiedendosi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che erano stati tanto vicini, o che avesse avuto un contatto con il suo piccolo genio al di fuori di quello che aveva quando partiva per una missione.

“Sono confuso…” cedette sotto quei tocchi, come poteva continuare a mentire se si comportava così? Se gli riservava le sue attenzioni? Semplicemente non poteva.

“Lo so, lo avevo capito… Non è giusto addossare un tale peso sulle tue spalle, un bambino non dovrebbe decidere del destino di tante persone” sospirò.

‹‹Un bambino… Io non sono più un bambino, non lo sono più da molto tempo… Eppure vorrei tornare ad esserlo; per poter stare con te senza pensieri, per poterti abbracciare o parlare tranquillamente ogni volta che voglio, e non solo quando sto male… Quando sto male…tu te ne sei accorta, come hai fatto mamma? Come hai fatto a capirlo? Sei venuta per questo? Posso davvero confidami con te?›› si chiese eppure dicendo “non voglio che scoppi una guerra, non voglio che tu e Sasuke viviate nell’angoscia di un possibile attacco da parte dei clan nemici, che viviate con il peso che gli Uchiha si porteranno dietro dopo l’offensiva che sferreranno al villaggio per il solo motivo di voler essere riconosciuto. Non voglio per voi un paese lacerato dalle guerre nelle cui strade scorrono fiumi di sangue, ma non so nemmeno come impedirlo senza distruggere questa famiglia o disonorare il clan…” con non poca fatica.

Era la prima volta che manifestava i suoi dubbi, le sue parole, e non poteva avvenire con nessun altro se con la persona che amava più di chiunque altro. Colei che, a propria volta, amava il suo aguzzino e che poteva condannarlo se solo gliene avesse parlato, la stessa di cui si fidava ciecamente e della quale non gli sarebbe importato se lo avesse condannato riferendogli ciò che gli aveva rivelato. Perché a lei avrebbe concesso tutto, anche la propria vita.

“Lo so, purtroppo neanche io lo voglio e non posso fare nulla per impedirlo. Posso solo guardare lo scorrere degli eventi, belli o brutti che siano, stare vicino alle persone a me care, cercare, nel mio piccolo, di farle stare bene e di prendere la decisione a mio parere più giusta” disse mettendogli una ciocca di capelli che gli ricadeva in avanti dietro l’orecchio.

“E se le scelte saranno sbagliate?” chiese Itachi ammaliato da quel gesto.

“In questo caso ogni scelta che tu prenderai avrà un pro o un contro… Devi solo pensare a cosa sia meglio per le persone a cui tieni e, perché no, anche per quelle che non hai mai visto, per chi vivrà in un futuro… Purtroppo io non posso dirti cosa fare o mi metterei sullo stesso piano di tuo padre imponendoti qualcosa ma posso dirti che io non ti giudicherò, qualsiasi sia la tua scelta perché so che sarà sofferta. Vorrei farmene carico al posto tuo amore mio, come avrei voluto un futuro assai diverso per te…” disse con occhi lucidi e non potendo fare altro per lui; voleva dirgli di scappare, di portare con sé Sasuke ma sapeva che sarebbe stato inutile ed in fondo, anche lei nutriva la speranza che il figlio potesse fare qualcosa. Per la famiglia, per il clan ed anche per il villaggio.

“Lo so mamma…” sussurrò Itachi prendendogli la mano che ancora stava carezzando i suoi capelli, per portarsela davanti la bocca e poggiarvi sopra le labbra in un dolce bacio. Quelle parole certamente non gli avevano risolto il problema ma gli avevano scaldato il cuore. Lo avevano fatto sentire ancora il suo bambino e forse gli avevano anche fatto capire cosa doveva fare, o almeno, cosa aveva letto lui tra le righe e quindi mormorò “grazie”.

“Avrei voluto fare di più per te…”.

“Non puoi. Ma ora sto meglio” mentì per l’ennesima volta quella sera, lasciando la sua mano.

“Ne sono felice…” sorrise appena la donna che però non fece in tempo a dire altro in quanto si sentì la porta di casa aprirsi, segno che Fugaku era tornato da una riunione.

“Vai” disse Itachi.

“Buonanotte tesoro…”.

“Buonanotte” disse lui che poi, nel silenzio della sua camera, rimase a sentire i suoi soavi passi allontanarsi lungo il corridoio e sparire giù per le scale dove, ad aspettarla, c’era il marito che guardandola le domandò:
“Ci hai parlato?”.

“Si…”.

“I tuoi dubbi erano fondati?”.

“No”.

I giorni seguenti furono un susseguirsi di eventi a cui il giovane Uchiha dovette far fronte in modo impeccabile, nonostante il tormento che lo divorava dall’interno. Dopo quella sera non aveva più parlato con la madre, ma aveva ripreso a guardarla da lontano, scrutarla per carpire ogni minimo cambiamento di espressione si dipingesse sul suo volto immutabilmente sereno. Pensava e ripensava alle sue parole e più lo faceva, più arrivava sempre alla stessa conclusione; sacrificare il clan, la famiglia e la sua vita per un bene maggiore, quello del villaggio e della pace che ne conservava tuttavia, nonostante avesse deciso, non riusciva a farlo. Non riusciva a distruggere con le proprie mani quella che in fondo era la sua esistenza perché, dentro di sé, ancora nutriva un piccolo desiderio: che tutto ciò fosse solo un brutto sogno. Che il suo clan riacquistasse la ragione, che il padre deponesse l’ascia di guerra e lo liberasse da quel ruolo tanto odiato. Che Shisui e gli altri smettessero di guardare quell’uomo come se avesse il potere di far tornare il loro clan agli antichi fasti. Ma purtroppo quello non era un sogno, né un incubo da cui potersi risvegliare ed inesorabile arrivò l’ora in cui la decisione doveva essere presa, il momento in cui il padre gli diede il giorno e l’ora esatta della rivolta che sarebbe avvenuta esattamente undici giorni, dodici minuti e trentasette secondi a partire da quell’istante.

Undici giorni, dodici minuti e trentasette secondi di puro inferno per Itachi, che fu costretto a prendere la decisione più dolorosa della sua vita, quella di fare il triplo gioco e mettere al corrente l’Hokage del pericolo imminente. Una rivelazione, un pezzo di cuore stroncato. Una rivelazione, un pezzo di vita perso per sempre. Una rivelazione, la fine del suo clan. Una rivelazione, un marchio indelebile che si sarebbe portato dietro per tutta la vita. Una rivelazione, una missione inaspettata, crudele, troppo crudele… a cui persino l’Hokage in persona si era opposto: sterminare il clan Uchiha. Avrebbe dovuto aspettarselo dai consiglieri che non usavano mezzi termini, eppure quella era l’unica ipotesi che aveva stupidamente scartato. Una missione, un forte senso di colpa. Una missione, un pensiero fisso, sua madre e suo fratello, entrambi vittime innocenti di quell’imminente tragedia. Una missione, una condizione. Una vana speranza di salvare almeno due persone a cui teneva più della sua stessa vita. Una missione, un patteggiamento. Una missione, un compito che forse, a quel punto, sarebbe stato più facile da accettare se unita alla vendetta di un altro uomo. Un uomo incontrato giorni addietro nel bosco attorno a Konoha che aveva riconosciuto essere un Uchiha grazie al suo sharingan, estremamente più potente del proprio. Un uomo che lo aveva quasi ucciso, che lo aveva guardato con estremo disprezzo non appena aveva visto quegli occhi rossi come i suoi. Un uomo che, vedendo che riusciva bene o male a tenergli testa, aveva deciso di risparmiarlo e che, non considerandolo una minaccia, gli aveva rivelato la sua identità. Un uomo da cui stava correndo per rendere un po’ più sensato tutto quell’orrore. Un uomo con cui stipulò un ulteriore accordo. Un uomo a cui vendette il clan per salvare il villaggio, che in fondo aveva già scelto. Un uomo che gli rivelò una parte del segreto della sua potenza, che presto avrebbe acquisito e messo al suo servizio. Un uomo che sarebbe stato il suo maestro.

Ormai mancavano tre giorni a quella che sarebbe stata la fine del clan Uchiha e, sebbene si mostrasse tranquillo ed impassibile come al solito, Itachi era più che mai tormentato dai demoni che dentro di lui già gli facevano vedere quello che sarebbe avvenuto, lottando per tenersi a galla e non affondare. Ad aiutarlo, ovviamente, lo sguardo sempre dolce e normale della madre, che non era mutato neanche quando si era saputo del suicidio di Shisui, di cui ovviamente era stato incolpato dato che, nella sera di quella riunione, erano mancati solo lui e lo shinobi che aveva ucciso per acquistare un potere, sì inferiore a quello del suo maestro, ma che lo avrebbe aiutato a portare a termine la sua missione. Un muto silenzio che lo sorreggeva in quanto gli faceva capire di aver fatto la scelta giusta. Un muto silenzio a cui si aggrappava, un muto silenzio che gli aveva dato la forza di andare avanti. Un muto silenzio che fu spezzato la notte in cui trapassò Fugaku con la propria katana e la sentì urlare.

“Itachi perchè…” mormorò l’uomo mentre il figlio ritraeva la spada grondante del suo sangue, che a quel punto si riversò in terra e nelle sue mani non appena se le portò al ventre mentre Mikoto correva al suo fianco per sorreggerlo.

“Per il villaggio….” dichiarò Itachi fissandolo negli occhi, rossi come i suoi, ma nei quali, invece che la solita ammirazione, vi leggeva delusione.

“Io ero tuo padre…il clan la tua casata…” disse l’uomo tendendo una mano insanguinata verso quel ragazzo dal volto come sempre impassibile grazie alla maschera di perfezione che lui stesso gli aveva infilato.

“Non potevo permettere che faceste scoppiare una guerra…” rispose lui vedendo che le sue iridi erano tornate scure come la pece, segno che le forze lo stavano abbandonando. Avrebbe voluto colpirlo direttamente al cuore, alleviare la sua sofferenza ma il padre si era spostato, e non gli era stato possibile farlo.
“Tu… Tu eri…” ma non finì la frase, la mano ricadde ed il respiro cessò, come anche il battito.

“Mamma, dobbiamo andare…” disse Itachi che solo allora riportò l’attenzione sulla donna che stringeva contro il proprio petto quel corpo esanime e, notando il suo viso rigato dalle lacrime e un’espressione di disperazione dipinta sul viso, vide che gli carezzava i capelli ed invocava in un sussurro il suo nome pregandolo di riaprire gli occhi.

“Mamma, dobbiamo andare” ripeté mentre la sua maschera si infrangeva nel vederla così, lasciando il posto ad un’espressione appena disorientata.

“Dove? Dove posso andare se lui non c’è più…” mormorò lei, la voce strozzata dal pianto.

“Via, lontano qui..” rispose con voce leggermente tremante.

“Non vi è posto per me al di fuori di questo quartiere… lontano dall’uomo che amo, dalla mia casa, e probabilmente dai figli che ho cresciuto… Itachi perché lo hai fatto?” chiese dato che ormai era chiaro che presto si sarebbero dovuti separare, guardandolo con i suoi occhioni ricolmi di lacrime, in quel momento così diversi dai propri, così diversi che quasi non riconosceva.

“Io… ho agito per il bene del villaggio… Tu stessa mi hai detto di scegliere il villaggio…” disse per la prima volta in vita sua confuso e sentendo un dolore immenso dilaniargli il cuore.

“Io non ti ho mai detto una cosa del genere… Oh Itachi…” singhiozzò coprendosi il volto e sporcandolo di sangue.

“Tu hai detto che dovevo pensare a cosa fosse meglio per le persone a cui tenevo ed anche a quelle che non ho mai visto, a coloro che avrebbero vissuto in un futuro… che non volevi metterti sullo stesso piano di Fugaku…”.

“Lo ho detto ma non intendevo questo… Non intendevo… Itachi che ne è degli altri?” domandò notando solo allora che non si udiva il minimo rumore pervenire al di fuori del loro giardino e che l’unica cosa che si poteva avvertire era il ticchettio della goccia che dalla canna di bambù cadeva nel laghetto, ma inorridendo alla vista dell’altro che distoglieva lo sguardo “Itachi non puoi averlo fatto davvero…” aveva capito.

“Io non ho avuto altra scelta… Ho prediletto il villaggio ed i consiglieri mi hanno ordinato di uccidere tutti… Se mi fossi rifiutato lo avrebbero fatto fare a qualcun altro, io non pensavo che mi avrebbero ordinato questo… Tuttavia non potevo fare altrimenti, non potevo scegliere il clan, ho dovuto scegliere il villaggio per evitare una nuova guerra… per far avere a te e Sasuke un mondo tranquillo in cui vivere, perché gli altri clan non si sarebbero mai sottomessi al nostro ed avrebbero dato vita a qualcosa più grande di noi… Incontrollabile…” disse, ogni parola un supplizio, la certezza di aver sbagliato, il rimorso che lo assaliva.

“Oh Itachi… amore mio…” mormorò Mikoto alzandosi ed andandogli vicino “quanto dolore, quanto orrore, quanto devi aver sofferto. Piccolo mio perdonami… Io…io non credevo questo, non volevo questo. Stupidamente ho lasciato a te ogni decisione con la speranza che, essendo un capitano AMBU, un genio, trovassi la chiave per risolvere ogni cosa senza spargimenti di sangue inutili. Che trattandosi di te, l’Hokage avrebbe preso provvedimenti meno drastici mentre io cercavo di convincere tuo padre a riflettere attentamente…” disse tra i singhiozzi e carezzandogli il viso, che sporcò come il suo “io, io non volevo questo per te, per la nostra famiglia… Dov’è Sasuke?” .

“All’accademia… Mamma dobbiamo andare…”.

“Dove?” disse.

“Te lo ho detto, lontano…lontano da Konoha, lontano da questo posto…”.

“No, io non posso, il mio posto è qui, con tuo padre… Io ho giurato di amarlo, nel bene e nel male… non posso lasciarlo…”.

“Mamma Fugaku è morto!” esclamò Itachi.
“No, no, lui si riprenderà… tuo padre è forte…” affermò lei guardandolo; ci credeva davvero.

“Mamma…” mormorò, nel suo viso era riflessa un’espressione indicibile; il suo bel volto ormai rigato da lacrime e sporcato dal sangue.

“Il mio posto è qui…” ripeté.

“Come puoi dire questo… vuoi abbandonarmi ancora? Vuoi abbandonare Sasuke?” chiese ‹‹come puoi voler restare con lui, un morto, e non con noi? Come puoi farmi questo? Tu, il mio sole, la mia luna, la mia ragione di vita… come potrò recuperare tutto il tempo perduto se ora non vieni con me? Come farò ad andare avanti? Sei tutto per me, il mio sogno di notte, la mia realtà di giorno… Mamma ti prego non farmi questo…›› pensò sentendosi morire a quelle parole.

“E tu come puoi chiedermi di seguirti chissà dove? Tu sei un ninja, tuo fratello lo diventerà a breve… entro poco mi lascerete sola ed io allora cosa farò? Attenderò il vostro ritorno rimpiangendo di essere andata via, guarderò i tuoi occhi che si spengono e diventano malinconici ogni volta che mi contempli? Mi consumerò nel rimorso di non essere rimasta al fianco della persona che amo quando potevo? No, impazzire lentamente non sapendo dove siete, o cosa fate, se vi è successo qualcosa, o anche solo al ricordo di questa notte!

Per Sasuke c’è speranza perché non ha visto, per te anche in quanto avrai la consapevolezza di aver preso la decisione giusta ma a me cosa resterà? Dici che ti ho lasciato solo ma non è vero… Io ti ho sempre osservato, ti sono sempre stata vicina, e lo sarò sempre… Ti amo più di ogni altra cosa al mondo, a te, come a tuo fratello, e mi rammarico solo di non essere stata in grado di dimostrartelo se non con sporadici gesti. Di non averti detto ogni giorno della tua vita quanto ti volessi bene, di non averti carezzato e baciato come una madre fa col suo bambino” disse mentre delle nuove gocce salate solcavano il viso che lui, con quel gesto folle, aveva sporcato.

“Mamma non lasciarmi…” la supplicò per la prima volta in vita sua. A cosa servivamo l’orgoglio e la perfezione se non poteva stare con la persona a cui teneva? A cosa serviva tutto ciò se doveva rinunciare a lei, se doveva comunque privarla della sua felicità.

“Ti prego non chiedermi questo amore mio…” lo implorò abbracciandolo.

“Se io avessi capito, se solo avessi capito io…”.

“No, non dirlo, se questo è ciò che hai recepito vuol dire che era la cosa giusta da fare. Non addossarti tutte le colpe, non sei l’unico ad averne, la mia è stata quella di non capirti, quella di tuo padre di averti rubato l’infanzia e la tua… solo di essere nato un Uchiha…” disse lei cingendolo più forte prima di staccarsi e, togliendosi la collana che portava al collo, allacciandola al suo affermò “ricordati che io sarò sempre con te e tuo fratello…”.

“Mamma cosa vuoi fare?” chiese a quel punto Itachi che, per la prima volta da quando ne aveva memoria, sentì delle lacrime scorrere lungo il suo viso; lo sapeva, quello era un addio eppure non voleva ammetterlo.

“Seguire tuo padre… e lasciarti libero…” mormorò Mikoto sapendo che se l’avesse seguito sarebbe impazzita o, peggio, gli avrebbe potuto dire qualcosa di cui si sarebbe pentita, rendendo la sua esistenza ancora più drammatica di quanto già non fosse stata ed era, dopo quanto aveva fatto.

“Non puoi chiedermi questo…” inorridì il ragazzo, come poteva chiedergli di alzare la spada su di lei? Sulla sua luce?

“Non te lo sto chiedendo…non ti farò carico anche di questo fardello…” disse lei estraendo un kunai che lo shinobi portava legato ad una coscia per piantarselo nell’addome.

“Mamma!” urlò Itachi sovrastando il suo gemito strozzato e prendendola tra le braccia come solo nei suoi sogni più profondi accadeva ma, al contrario di essi, lei non sorrideva “mamma perché?” domandò tra le lacrime che senza più alcun freno, uscivano dai suoi occhi; probabilmente tutte quelle che non aveva mai pianto dato che non riusciva a fermarle.

“Tesoro piangi, piangi pure e poi vai avanti… Fallo per me ma soprattutto per te stesso e tuo fratello, prenditi cura di lui…” disse la donna carezzandogli il viso, la sua voce ancora più bassa del solito, meno melodica, triste, infinitamente triste “Itachi ti voglio bene…” e quindi, troppo stanca, chiuse gli occhi sentendo l’urlo di dolore del figlio che la strinse fortissimo.
Itachi rimase in quella stanza per più di 20 minuti tenendola tra le braccia e quando si staccò, togliendosi le bende che portava al braccio, piano ripulì il suo viso dal sangue che lo imbrattava. Lo fece con estrema cura e delicatezza, e nel mentre guardava la sua espressione serena eppure allo stesso tempo sofferente. L’espressione di una donna debole che allo stesso tempo era stata forte. Il volto della madre che aveva sempre amato e probabilmente anche odiato pensando:
‹‹Mamma, non ti vedrò mai più sorridere, non ti sentirò più pronunciare il mio nome, non ti sentirò più sfiorarmi le guance ogni volta che parto in missione… Non mi chiamerai più amore mio, tesoro… Piccolo… Non potrò più guardarti per ore senza che tu non te ne accorga… O forse si? Potrà mai la pazzia farmi vedere ancora il tuo sorriso? Mi hai detto di andare avanti ma come posso fare se neanche tu te la sei sentita? Tu che avevi due figli? Mi hai chiesto di pensare a Sasuke ma come posso occuparmi di lui se non sono stato neanche stato in grado di occuparmi di te? Fino a quando potrò evitare questo senso di colpa che mi dilania il cuore? Per quanto potrò tenere a bada il rimorso del crimine di cui mi sono macchiato?›› e, una volta ripulita, come era sicuro che volesse e non gli avesse chiesto per non farlo soffrire ancora di più, portò la donna affianco del marito mentre una voce alle sue spalle, la stessa a cui aveva lasciato il lavoro sporco, la stessa a cui aveva sacrificato i suoi compagni, diceva:

“Itachi tra poco Sasuke sarà qui…” e, vedendo la donna a terra “ma non doveva venire con noi?”.

“Taci” disse il ragazzo che, mentre andava al laghetto, pulendosi pensava ‹‹tu hai detto che non potevo offrirti un futuro… ebbene non posso offrirlo neanche a Sasuke perché il suo futuro eri tu… Come può vivere con colui che gli ha ammazzato i genitori? Come posso rivelargli a cosa mirava il padre che tanto stimava? Come posso fargli questo? Non doveva andare così! Tu dovevi essere viva, noi dovevamo scappare, lui non doveva sapere… Già… lui non deve sapere… Lui deve vivere qui…›› ed in quel momento fece l’unica cosa possibile, decise di farsi odiare dal fratello, a cui in quel modo avrebbe dato una ragione di vita oltre che un compito. Quello di andare avanti e porre termine alla sua esistenza. Si, lui sarebbe stata la ragione di vita del fratello ed il fratello sarebbe stata la sua, almeno sino a quando non sarebbe stato sicuro che il suo fratellino avesse potuto camminare da solo sulle proprie gambe.

‹‹Il dolore ed il rimorso saranno la mia punizione, e tu, colui che mi libererà da essa…che mi permetterà di starle nuovamente accanto›› pensò andando incontro a Sasuke che lo guardava terrorizzato e a cui, senza saperlo, avrebbe reso la vita più difficile e amara di quanto non avesse fatto se se lo fosse portato con sé o gli avesse detto la verità.

Note dell’autrice
Quando Madara ha detto che Itachi aveva ucciso il suo amore, il mio cervello non poteva restare in un angolino XD
Immediatamente ho pensato: Shisui! (da brava fan yaoi ho sorvolato su tutto ciò che era contro questa affermazione xD)
Poi però, pensandoci bene, si ok è possibile ma a 13 anni…. E da qui l’idea di creare una storia su un amore per qualcosa di perduto tipo un componente della famiglia, un punto di riferimento, e da qui è nata la mia fic.
Difatti ho immaginato che l’amore di Itachi fosse quello di un bambino per la propria mamma, e quindi mi sono messa a scrivere.
Personalmente in questo momento mi rispecchio un po’ nel personaggio, mi sento sola però in fondo chi è che non lo è?
Penso che nelle scelte importanti tutti lo siamo, come penso anche che ognuno capisca ciò che vuole dei discorsi della gente o, ancora, ciò che spesso ci vuole leggere come fa Itachi.
Spero di esser riuscita a centrare il personaggio, che adoro, e che questa storia vi trasmetta qualcosa.
Scusate la lunghezza, doveva venire più corta ma come al solito non mi sono regolata…
Che altro dire, ah si, questa fiction l’ho scritta da sola….non sono abituata a farlo e non ho molta fiducia in me stessa quindi ci ho messo un tot a decidermi di postare^^
Perdonate ogni sorta di errore che vi invito a segnalarmi, di qualsiasi tipo ed un grazie particolare ad Inu-chan che mi ha fatto da beta =*
Ovviamente si accettano commenti sia positivi che negativi XD
Spero davvero che vi sia piaciuta alla prossima =*

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